Per Gaza nulla di nulla

di Daniela Binello

Ci sono voluti venti mesi di massacri di civili a Gaza, tuttora in corso con il via libera dei vertici del governo israeliano, perché Londra e Bruxelles prendessero in considerazione l’adozione di sanzioni economiche su Tel Aviv. Una tardiva presa di coscienza, abbastanza irrilevante e sostenuta peraltro solo da alcune nazioni occidentali.
Per i palestinesi quanto sta accadendo dal 7 ottobre 2023 è ancora peggio della Nakba del 1948. Questo termine in arabo significa catastrofe, ma in definitiva ha preso il significato di pulizia etnica. Dopo che “Gaza sarà completamente di- strutta”, ha dichiarato il ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich il 6 maggio scorso, durante una conferenza organizzata nella colonia di Ofra, “i civili saranno mandati nel sud della Striscia e, da lì, inizieranno a trasferirsi in massa verso paesi terzi”. Da parte sua Donald Trump ha colto l’occasione di attirare gli al- leati arabi verso un modello aggiornato di accordo del secolo, un passo che nel 2020 avevano snobbato.
Per la normalizzazione dei rapporti con Israele, l’Arabia Saudita si unirebbe a Bahrein, Emirati arabi uniti e Marocco, seguendo l’esempio di Egitto e Giordania. Il risultato assegnerebbe il merito, ovviamente, al presidente statunitense Trump e al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Con parole forti la giornalista Michelle Goldberg ha scritto sul New York Times che “anche prima dell’insediamento di Trump, l’ordine mondiale fondato sui trattati internazionali era profondamente degradato, in gran parte anche a causa della complicità di Biden nell’annientamento di Gaza”. A questo proposito il sociologo Yagil Levi sostiene che “Tel Aviv avrebbe evitato di lanciare un’operazione terrestre se non avesse ottenuto l’approvazione internazionale per nuocere ai civili dell’enclave palestinese”. L’approvazione internazionale qui vale innanzitutto per i paesi che esercitano una reale influenza su Israele fin dalla fine degli anni ’60: gli Stati Uniti. Ora Washington, invece di frenare la ferocia dell’alleato, ha preso parte con entusiasmo alla prima guerra congiunta israelo-statunitense, seppure senza la partecipazione diretta delle sue truppe per quanto riguarda i bombardamenti su Gaza.
Proviamo a ripercorrere alcune fasi del passato per cercare di costruire un minimo di ragionamento basato sui fatti.
Il sostegno di Joe Biden a Israele è stato innanzitutto ideologico. Nonostante il fatto che l’ex presidente democratico avesse promesso di riconsiderare le misure adottate a favore di Tel Aviv dal suo predecessore repubblicano (il Trump del primo mandato), Biden ha portato avanti quella politica, addirittura superandola con il larvato sostegno alla vendetta israeliana contro Gaza.
Prima delle primarie democratiche del 2020, il giornalista Peter Beinart aveva svelato il bilancio di Joe Biden a favore di Israele. In un documentato articolo pubblicato in Jewish Currents (27 gennaio 2020) il giornalista spiegava come, all’inizio dell’amministrazione di Barack Obama, quando la Casa Bianca aveva tentato di fare pressioni su Netanyahu per salvare la prospettiva del riconoscimento di uno Stato palestinese, Biden si era prodigato, più di ogni altro leader statunitense, in difesa delle posizioni del primo ministro israeliano.
Ricordiamoci anche che a metà della guerra arabo-israeliana del 1973, Richard Nixon dichiarò: “Sono sionista. Non è necessario essere ebreo per essere sionista”. Più volte nel corso della sua amministrazione, Biden ha fatto la stessa dichiarazione in pubblico.
Un anno dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, quando diventava evidente il carattere di genocidio assunto contro Gaza, il presidente democratico si vantava: “Nessuna amministrazione ha aiutato Israele più di me. Nessuna”. La faziosità di Biden è cresciuta dopo l’orribile attacco del 7 ottobre di Hamas.
In seguito alla disfatta del nazismo e del fascismo in Europa, alla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti e gli altri paesi alleati diedero vita a una nuova era che attraverso la Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ha costituito la pietra miliare per costruire la struttura centrale dell’Onu. Negli anni successivi sono stati fatti grandi passi avanti in quella direzione, in particolare con la creazione della Corte internazionale di giustizia (Cig), con il mandato di svolgere una funzione di mediazione nei contenziosi tra gli stati, avviando il consolidamento del diritto internazionale umanitario con l’adozione nel 1949 delle convenzioni di Ginevra, che estendono il campo delle tutele verso i più fragili, nell’ambito delle popolazioni civili.
Tuttavia, la morte di Franklin Roosevelt nell’aprile del 1945 e la sua sostituzione con Harry Truman, suo vicepresidente di destra, rappresentò una svolta e il nuovo ordine venne rapidamente smantellato. La guerra fredda, per parte americana contro il comunismo e per parte sovietica contro l’imperialismo statunitense, divenne un buon pretesto per disprezzare i dettami della Carta delle Nazioni Unite. Negli anni ’90, il crollo del blocco sovietico suona, per gli avversari, come una grandiosa vittoria ideologica che va ulteriormente a cambiare l’equilibrio mondiale.
Washington coglie l’occasione per riorganizzare il mondo. Ciò si traduce nel 2002, da una parte, nella creazione di un secondo organo giudiziario internazionale, la Corte penale internazionale (Cpi), specializzata nei procedimenti a carico di individui accusati di quattro tipi di crimine: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e aggressioni violente. Dall’altra parte, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adotta, il 16 settembre 2005, il principio della responsabilità di proteggere (in inglese responsibility to protect, in sigla R2P o anche RtoP) in base al quale, andando oltre la sovranità degli stati, si autorizza un’azione collettiva risoluta, tramite le decisioni del Consiglio di sicurezza.
Conformemente alla Carta, con riferimento al suo capitolo VII, caso per caso e in cooperazione con le organizzazioni regionali competenti, qualora i mezzi pacifici si rivelassero inadeguati e le autorità nazionali fossero manifestamente incapaci di assicurare la protezione delle popolazioni contro il genocidio, i crimini di guerra, la pulizia etnica e i crimini contro l’umanità.
Prima della creazione di queste giurisdizioni, gli Stati Uniti avevano condotto una serie d’interventi umanitari nel Corno d’Africa e poi nei Balcani, e avevano insistito affinché il massacro dei bosniaci perpetrato dalle forze serbe fosse classificato come genocidio, ma per Gaza, come chiunque può constatare, nulla di nulla.
Ma ci sono altri elementi da considerare per ampliare la riflessione. Invece di sciogliersi dopo il patto di Varsavia, l’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del nord (NATO) si allarga a un numero crescente di stati un tempo legati a Mosca, comprese alcune repubbliche ex sovietiche. Si inaugura così una fase inedita d’interventismo militare collettivo, mentre gli Stati Uniti trascinano gli alleati nella prima grave violazione della legalità internazionale dopo il 1990: la guerra in Kosovo (1999), scatenata aggirando il Consiglio di sicurezza in modo da evitare il veto russo e cinese.
Alla conferenza di Roma, nel 1998, gli Stati Uniti e Israele votarono contro l’adozione dello statuto della Corte Penale Internazionale (Cpi). Lo firmeranno più tardi, ma è solo un’operazione di facciata perché non l’hanno ratificato. Infatti, nel 2002, gli statunitensi con l’invasione dell’Iraq compiono la loro seconda grave violazione della legalità internazionale dopo il 1990 e Tel Aviv si macchia di una lunga serie di violazioni del diritto internazionale umanitario nella repressione della seconda Intifada a partire dal 2001.
Il vessillo comune è la guerra contro il terrorismo, l’insegna sotto la quale l’amministrazione di George W. Bush e il governo di Ariel Sharon conducono le loro offensive, calpestando i principi dell’ordine internazionale.
Andiamo avanti e ricordiamoci che nel 2011 si invoca il principio dell’Onu della “responsabilità di proteggere” per legittimare contro la Libia l’intervento guidato soprattutto da Stati Uniti, Regno Unito e Francia. Questa operazione ha travalicato il mandato della risoluzione del Consiglio di sicurezza, adottata dopo l’astensione di Mosca e Pechino, però non è stato fatto ricorso a quello stesso principio in occasione di successivi massacri su grande scala, in particolare in Siria.
Torniamo, perciò, al massacro in corso a Gaza: qui le potenze occidentali hanno addirittura eluso la responsabilità del proteggere. Si può dire allora che si sta smontando pezzo per pezzo l’intera architettura dell’ordine del diritto internazionale. Le misure prese contro Israele o i suoi dirigenti presso la Cig e la Cpi, i due pilastri di quella struttura, hanno suscitato reazioni negative da parte di molte potenze occidentali. Un discredito acuito con le reazioni all’emissione dei mandati di arresto emessi dalla Cpi contro Vladimir Putin, il 17 marzo 2023, in seguito all’invasione dell’Ucraina, e contro Netanyahu il 21 novembre 2024.
L’antisemitismo, attribuito in blocco ai mussulmani, ai palestinesi e a coloro che li difendono criticando Israele, offre la via di salvezza per assolvere le destre radicali, in Europa come negli Stati Uniti, e di trovare con loro un accordo per mettere alla gogna i nemici comuni. Questo accordo di forze, molto potente e apparentemente invincibile, spinge all’indifferenza verso la sofferenza palestinese e mira a negare la realtà del genocidio.
Le forze della destra radicale si stanno facendo strada nell’Alleanza atlantica, mentre la promessa occidentale del trionfo della legge del diritto umanitario pronunciata nel 1945 e rinnovata nel 1990 rimane lettera morta.