Politica estera e capacità militare: due sfide per l’Europa in un mondo instabile

di Paolo Pellegrini

Non uno spettro ma un ectoplasma si aggira per l’Europa, vaporoso spirito che si dissolve prima di materializzarsi: è l’ectoplasma della difesa comune europea.
Un articolo del ministro della Difesa Guerini, ospitato il 14 febbraio dal Corriere della Sera in risposta ad un precedente editoriale dello stesso quotidiano, riporta d’attualità l’insipienza della capacità d’influenza geopolitica non solo dell’Italia ma dell’Unione europea, nella misura in cui la stessa non è dotata di mezzi che le permettano di elaborare e attuare una propria autonoma politica estera che sia supportata da un’adeguata capacità militare.
Il ministro menziona la Libia come esempio di area di crisi in cui nessuna soluzione politica è possibile senza un supporto militare capace di imporre il cessate il fuoco e l’embargo al traffico di armi. Il tema della difesa comune europea riemerge nell’intervento di Guerini come elemento determinante per la realizzazione di una vera Europa politica.
Il sostanziale anche se non dichiarato fallimento della conferenza di Berlino ha in effetti mostrato che ogni tentativo di iniziativa europea nel contesto del conflitto libico non ha alcuna possibilità di essere minimamente efficace, proprio perché sono i rapporti di forza sul terreno, dunque le capacità militari, che condizionano le strategie e le possibilità di soluzioni politiche. Lo sanno bene gli altri protagonisti a latere del conflitto, alleati o finanziatori di al-Serraj o di Haftar, Russia e Turchia in primis ma anche Egitto ed Emirati Arabi Uniti: soltanto chi esercita direttamente o indirettamente un ruolo militare è in grado di condizionare i belligeranti. Come già avvenuto in Siria, russi e turchi sono ben felici di ritagliarsi il ruolo di “pacificatori” di conflitti di cui gli Stati Uniti si disinteressano o che affrontano con politiche ondivaghe e discontinue e nei quali l’Europa non è in grado di esercitare alcuna azione effettivamente cogente. Con l’aggravante, nel caso della Libia, di un’azione militare iniziata unilateralmente da due paesi europei, Francia e Gran Bretagna, affiancati poi da USA e NATO, che ha polverizzato il regime di Gheddafi senza avere alcuna idea su come gestire l’ex-post; un intervento destabilizzante l’intera regione, che al dramma umanitario che coinvolge le popolazioni direttamente interessate aggiunge le conseguenze importanti legate ai flussi migratori diretti in Europa.
L’esempio libico non è che l’epitome di un’impotenza europea che non nasce ora e per motivi contingenti ma è, per così dire, istituzionale. Ricordiamo come l’Ue sia rimasta imbelle (la Commissione, soprattutto, che nelle dichiarate intenzioni di Ursula von der Leyen avrebbe dovuto caratterizzarsi come “geopolitica”) di fronte ad un evento quale l’uccisione americana del generale iraniano Soleimani. Poche, tardive ed inutili dichiarazioni si sono levate da Bruxelles, a fronte di un episodio che non solo ha accelerato l’escalation della crisi USA/Iran lasciando intravvedere per un momento il rischio di un’improvvisa guerra su scala mondiale (fin troppo facile pensare a Sarajevo 1914), ma che ha altresì confermato l’irrilevanza in cui gli alleati europei sono tenuti dalla corrente amministrazione americana (in particolare l’Italia, neanche preavvertita), peraltro sulla scia di una tendenza ormai storica che data dagli anni successivi alla caduta del muro di Berlino. Caduto il grande spauracchio sovietico ed integrati i paesi dell’ex Patto di Varsavia nella casa comune europea, la protezione militare statunitense sugli europei tende progressivamente ad erodersi in modo quasi naturale, fino ad essere messa in discussione, salvo per quanto ritenuto necessario ai fini di contenimento ravvicinato della (ridotta) minaccia russa.
Nel succedersi delle crisi che lambiscono i confini europei e le cui conseguenze si riversano direttamente o indirettamente sull’intera Europa, dai fenomeni migratori alle questioni di approvvigionamento energetico passando per i veri e propri pericoli legati alla sicurezza, l’Europa resta geopoliticamente impotente. Due le ragioni: 1) l’inesistenza di una autorevole voce unica che comprenda e riduca ad unità la diversità degli interessi nazionali 2) la mancanza di una qualsiasi capacità di deterrenza militare in grado di sostenere una politica estera.
La concezione che ha finora sorretto la visione europea del proprio agire nei confronti dei soggetti ad essa esterni (statuali o meno), la quale si basa sul “diritto” come unico strumento di definizione dei rapporti internazionali, siano essi politici od economici, si rivela inadeguata quando deve fronteggiare situazioni di conflitto armato e protagonisti inclini al rispetto della forza più che degli accordi sottoscritti. Tale concezione “normativa” si scopre infatti monca in tali frangenti degli strumenti coercitivi atti a sostenere il rispetto o l’imposizione di qualsivoglia legge o trattato, norma internazionale, accordo o finanche tregua nel caso di conflitto armato.
Sarebbe lungo e poco utile fare qui la storia dei momenti e dei motivi che hanno finora impedito di compiere reali passi in avanti circa la creazione di una vera forza di difesa europea. Quello che importa è che, nonostante recentemente si esprimano con una certa frequenza preoccupazioni circa la mancanza di interesse geostrategico da parte NATO (leggi USA) nei confronti dell’Europa e di conseguenza espressioni di una volontà di progredire rapidamente a dotare l’Ue di una propria effettiva capacità di deterrenza militare (vedi intervento di Macron alla conferenza di Monaco sulla sicurezza), di fatto non sembrano esserci all’orizzonte immediate opportunità che tali voti od auspici si realizzino concretamente.
Al fondo, ciò che continua ad accomunare le discussioni e le iniziative in materia di sicurezza (come anche di migrazione, ad esempio, alla sicurezza spesso accomunata, a torto o a ragione) è l’approccio esclusivamente o quasi “difensivo”, che si pone come reazione e non come strategia preventiva (difesa in profondità) o iniziativa di risoluzione o contenimento dei fattori che generano il fenomeno da cui ci si vorrebbe difendere: ossia, in primis, guerre e destabilizzazioni ai nostri confini. La miopia dell’approccio comporta che si trascuri o quasi, concentrati sulle periodiche emergenze vere o presunte, ogni strategia politica di profondità o di medio/lungo termine. Laddove un’Europa attore globale credibile potrebbe almeno tentare di influire direttamente sulle cause, ai suoi confini, dei fenomeni che è costretta a subire. Politicamente, diplomaticamente, in caso anche (a scopo deterrente o di interposizione) militarmente.
Non a caso, i più grandi nemici di un’Unione europea forte (a parte… gli europei stessi) sono le due potenze che, sentendosi ancora “imperi”, esercitano od ambiscono ad esercitare la loro influenza sul nostro continente: la Russia di Putin e gli Stati Uniti di Trump.
Gli interessi particolari, o presunti tali, dei singoli paesi castrano le potenzialità che l’Ue avrebbe di esercitare una leadership politica. Politica estera e difesa rimangono dunque prerogative degli stati nazionali e l’UE è, in materia, impotente.
Ciò che è probabilmente mancato finora, nella comunicazione mainstream e nel discorso politico europeo, è la maturazione di un processo di acquisizione, da parte dei cittadini europei, della consapevolezza che le chiavi del loro destino sono attualmente detenute da un Trump o da un Khamenei o da un Putin, più che dai rispettivi governi nazionali. Una volta maturato tale humus di razionale consapevolezza, forse la classe politica troverebbe il coraggio di assumere la responsabilità di cogliere i momenti di crisi, come altre volte è stato nel passato della costruzione europea, per imprimere una svolta alla definizione dell’unità politica dell’Unione e alla sua capacità di rappresentarsi, anche, come potenza militare.
Dotare l’Unione di una reale capacità militare “federale” al servizio di una vera politica estera condivisa sarebbe, del resto, il mezzo per riguadagnare come continente quella sovranità che non può avere ormai alcun reale significato se identificata unicamente nel confine angusto dei singoli stati nazionali.