Politica industriale europea, aiuti di Stato e fondi della Ue

di Massimo Ortolani * –

L’evoluzione in gran parte imprevedibile delle vicende geopolitiche degli ultimi anni consente oggi di esaminare quali opportunità potrebbero emergere dall’esame degli spazi geoeconomici comuni ai tre ambiti istituzionali di politica industriale europea, aiuti di Stato e fondi provenienti dall’Ue.
Se si considerano la diatriba in corso sulla risposta all’IRA statunitense e sui possibili allentamenti delle regole sugli aiuti di Stato, nonchè i programmi di green transformation attivati anche da India e Giappone, emerge come il quadro delle relazioni commerciali e di globalizzazione compartimentata sarà in futuro sempre di più caratterizzato dalle politiche di incentivo/protezione applicabili alla salvaguardia della competitività nazionale di singole nazioni, o di gruppi di nazioni come nel caso dell’Ue (1).
Il Piano industriale del Green, come indicato dalla Commissione Ue mira a creare un contesto più favorevole all’aumento della capacità produttiva per le tecnologie e i prodotti a zero emissioni nette, ritenuti necessari per conseguire gli ambiziosi obiettivi climatici dell’Europa. Le sfida che ne conseguono sono fondamentalmente incentrate sul contrasto alla potenzialmente elevata concentrazione territoriale (e geoeconomica) dell’offerta di impianti, moduli fotovoltaici, auto elettriche e delle principali tecnologie green,con correlati rischi di impatti monopolistici, oligopolistici, o di colli di bottiglia, ma anche e soprattutto sui rischi di distorsioni/deviazioni dei flussi di domanda, spiegate da incentivazioni pubbliche alla produzione di tali prodotti, fortemente generose in nazioni estere.
Non solo USA ovviamente, ma soprattutto Cina.
Dal punto di vista dell’intelligence economica nelle politiche di aiuto si pone però il quesito di come equilibrare i benefici per l’Interesse nazionale di un singolo paese, con quelli distributivi in area Ue. Stante la ben nota obiezione degli squilibri di competitività generabili nei paesi membri dotati di molto maggiore capacità fiscale relativa, da dedicare a tali incentivazioni (2).
Tuttavia potrebbe intravedersi uno spazio per applicazioni di criteri di intelligence economica per produzioni green a forte integrazione economica unionale. Ovvero, esaminando la possibilità che l’eventuale applicazione nei paesi membri Ue di aiuti ad imprese che producano ad esempio automobili elettriche, batterie, turbine eoliche, pannelli solari, ecc, sia declinabile in linea con le percentuale di valore aggiunto “unionale”; quindi tenendo anche conto di quanto esportatori di altri paesi Ue forniscano, ad esempio ad una impresa del paese X, in termini di input materiali od immateriali immessi nella produzione dei suoi prodotti finali. Così da potere fare beneficiare anche tali fornitori, non nazionali di X, degli incentivi Ue secondo modalità di ripartizione da concordare. Mentre in tutti i paesi Ue gli acquirenti delle auto prodotte da X beneficerebbero dello stesso prezzo ridotto grazie agli incentivi.
In proposito va infatti ricordato che l’accesso alle protezionistiche misure statunitensi varate con l’IRA, ma anche con il Chips and Science act, si fonda proprio sul rispetto del vincolante criterio della percentuale di “contenuto nazionale”, o di quello di paesi che hanno con gli USA sottoscritto un accordo commerciale: Messico e Canada. In tal modo fornendo valenza economica alla catena di fornitura integrata Canada-Stati Uniti, al fine di offrire incentivi fiscali per l’acquisto di veicoli elettrici prodotti in Nord America.
Si richiede ad esempio con tali norme che il 40% dei componenti delle batterie provenga dagli Stati Uniti o dai suoi partner di accordi di libero scambio, tra cui il Messico. Norme che mirano anche a stimolare gli investimenti nella produzione di energia e nella manifattura nazionale, tanto che i crediti d’imposta per l’energia pulita si prevede vengano aumentati se la quantità di acciaio americano utilizzato nei progetti eolici raggiunge la prevista soglia di contenuto nazionale.
Tuttavia questo proposito nell’Unione si dovrebbe cominciare dalla definizione dei paletti istituzionali entro i quali calare gli impatti della legislazione sugli incentivi green. Dalla definizione quindi delle capacità non solo di mantenere un livello di competitività eguale per tutti i paesi membri, in particolare per i prodotti meno soggetti a concorrenza extra-Ue, ma anche di negoziare efficacemente su base bilaterale (3) e multilaterale (G20 G7) per evitare che una guerra dei sussidi a livello planetario porti alla generazione di inefficienze sistemiche che mal si concilierebbero, in ragione del criterio del costo-opportunità, con un utilizzo alternativo sul piano geoeconomico degli stessi fondi nazionali o di fonte Ue.
Inevitabile quindi non richiamare da ultimo la necessità di apposite guidelines operative di politica industriale, per specifici progetti di investimento in area green, che individuino settori ed aziende nazionali a valenza strategica (4) potenzialmente candidabili agli incentivi (e non senza dimenticare che l’accettazione, a livello planetario: Usa, Ue, Cina, ecc. di un siffatta strutturazione legalizzata di sussidi, dovrebbe comportare una ridefinizione di gran parte delle attività di supervisione e decisionali del WTO).
Ciò premesso va ricordato che quale opzione alternativa agli aiuti, la Commissione ha proposto l’istituzione di un Fondo green per la sovranità industriale europea. Che notoriamente non vede il beneplacito di Berlino, tradizionalmente contrario alla creazione di nuovo debito Ue da garantire. Mentre il ricorso a fondi Ue alternativi per questi stessi obiettivi appare ancora oggi caratterizzato da una certa vaghezza, se si pensa a quelli potenzialmente utilizzabili in parte: quali Pnrr, RePower EU, e fondi di coesione.
In ogni caso il ricorso a fondi di finanziamento potrebbe aprire anch’esso prospettive di applicazione dell’intelligence economica nella misura in cui si potessero individuare soluzioni alternative ad esso, ma equivalenti nei risultati conseguibili. Andrebbe valutata, ad esempio, l’eventualità del ricorso alle garanzie di una istituenda agenzia europea di assicurazione dei finanziamenti reperiti sui mercati dai singoli stati membri, per poi essere erogati con tali finalità di aiuto. Per analizzare a quali condizioni di rischio economico-finanziario, commisurando gli impegni di contribuzione nazionale al capitale di tale agenzia agli ammontari dei finanziamenti che ciascuno stato membro intendesse assicurare, e facendo pur sempre valere i principi di coesione e solidarietà tra gli stati membri (art 3 del TFUE), tale schema possa risultare più vantaggioso per i paesi membri rispetto alla garanzia incondizionata di restituzione dei finanziamenti attinti da ogni stato membro dal suindicato Fondo green.
Come si sarà notato, se si toccano queste technicalities finanziarie si sconfina inevitabilmente nel dominio delle diplomazia dei rischi-paesi in ambito Ue. Ed è allora giusto ricordare come, recentemente, anche la mission istituzionale del Fondo salva-stati (MES) sia stata oggetto di proposta revisione/riconversione proprio in una ottica di un utilizzo di tali fondi aggiornata ai mutati (secondo i proponenti) obiettivi di interesse nazionale. Tanto da prevederne un utilizzo anche ai fini della rimodulazione della politica industriale europea. Vi è motivo per ritenere allora che il MES andrebbe ratificato da parte italiana, anche per non ingenerare contrarietà presso taluni Stati membri che, proprio nella supposta presenza di intenti ritorsivi, potrebbero risultare difficilmente coinvolgibili nella successiva negoziazione diplomatica del cambiamento della sua mission.
Da ultimo, stante il grado di implicazioni sul piano finanziario che anche la revisione del patto di stabilità può generare prospetticamente in Italia, quanto a gestione del debito pubblico e della connessa politica di aiuto di stato, sarebbe opportuno che anche i lineamenti di tale revisione venissero oculatamente analizzati in tale ottica.

Note:
1 – Non vi è bisogno di sottolineare come oggi risultino sempre più frequente vedere associati ed interconnessi, nell’ambito delle azioni di geoeconomia, gli impatti economici ascrivibili ad accordi di libero scambio, con quelli della difesa comune, con concordate azioni di guerra economica relative a divieti di import-export, sanzioni, dazi, ecc.
2 – A tale posizione si contrappone quella di economisti che sostengono che, se uno stato X è in grado di sussidiare maggiormente una industria innovativa, gli spillover di tale crescita favoriranno comunque anche imprese in altri paesi. Est modus in rebus, si dovrebbe rispondere. Nel senso che a questa analisi va contrapposta quella dell’effetto di prevedibile spiazzamento/indebolimento industriale generabile in tali altri paesi dalla competitività “artificiosamente” creata nel paese X.
3 – Ad oggi sono falliti i tentativi condotti per negoziare l’ottenimento per il mercato unionale di benefici in parte equivalenti a quelli estesi a Messico e Canada. A dicembre scorso la UE ha comunque ottenuto una parziale vittoria, dato che il Tesoro statunitense ha dichiarato che i veicoli elettrici costruiti al di fuori del Nord America possono beneficiare di crediti d’imposta, se noleggiati dai consumatori USA. Il problema è dunque di diplomazia economica. Dato che ad un irrigidimento degli USA su tale fronte la UE potrebbe contrapporre un suo irrigidimento nella collaborazione sugli importanti programmi ad elevato potenziale di cooperazione di natura geopolitica con gli USA, connessi ad iniziative come quelle del Global Gateway e del Consiglio UE-USA per la Tecnologia e il Commercio.
4 – Al riguardo si sottolinea che, quando si passa a conferire valenza strategica al fattore sicurezza nazionale, come appunto in questa fattispecie, la politica di incentivazione pubblica trova giustificazione – per ragioni di natura geoeconomica – anche nella creazione di capacità di produzione ridondante, onde evitare il rischio di restrizioni di offerta intra ed extra-UE. L’autonomia strategica significa ridurre la dipendenza della UE per quanto riguarda i materiali e le tecnologie fondamentali; vale a dire per lo sviluppo, in primis, di investimenti nei due pilastri e macro-settori dell’energia e della tecnologia, e poi nelle materie prime strategiche e per una politica industriale innovativa per le grandi filiere produttive europee, così da renderle meno dipendenti da rischi di delocalizzazione.

* Analista geoeconomico.