Qatar, da nano geografico a mediatore strategico nei conflitti internazionali

di Giuseppe Lai

Oltre ai meriti oggettivamente riconosciuti al presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel raggiungimento della tregua tra Hamas e Israele, sancita dagli accordi di Sharm el Sheikh dello scorso 13 ottobre, un ruolo centrale nella mediazione tra le parti è stato svolto da altri Paesi tra cui Egitto, Turchia e Qatar. La diplomazia dell’Emirato in particolare è stata la più attiva nel tentativo di superare le divisioni interne tra i due belligeranti e ottenere la fine delle ostilità, con la prospettiva di una pace stabile nel lungo periodo. L’efficacia della postura diplomatica del Qatar è l’esito della convergenza di fattori geografici, economici, storici e religiosi.
Dal punto di vista territoriale il piccolo Emirato, con una dimensione di poco superiore a quella di Cipro, ha come unico confine terrestre l’Arabia Saudita, a sud, mentre in tutti gli altri lati si affaccia sul Golfo Persico insieme ad altri Paesi tra cui l’Iran e gli Emirati Arabi. A questo nanismo geografico si è accompagnata tra gli anni ’50 e ’70 una vulnerabilità sul piano economico, con una popolazione ridotta, un territorio desertico ritenuto privo di risorse naturali e un’economia stagnante e fortemente dipendente dall’Arabia Saudita per la sua sopravvivenza nel contesto regionale. Anche dopo la conquista dell’indipendenza dal protettorato britannico nel 1971, il Qatar era considerato uno dei luoghi meno rilevanti della regione, schiacciato tra Paesi molto più grandi e influenti come l’Arabia Saudita e l’Iran e con una monarchia regnante ritenuta poco influente. Poi, negli anni ’90, il salto di qualità: al confine con le acque territoriali dell’Iran viene scoperto uno dei maggiori giacimenti di gas naturale al mondo, dotato di una quantità di riserve pari a quelle di tutti gli altri giacimenti di gas naturale del pianeta. Grazie allo sfruttamento di tale risorsa, condivisa con l’Iran, le esportazioni di gas raggiungono l’87% del Pil (Prodotto Interno Lordo) dell’Emirato, creando le condizioni di un boom economico senza precedenti e di una transizione da piccolo Stato a importante hub di riferimento della diplomazia internazionale. Infatti, per esportare il gas di questo giacimento il Qatar era vincolato alla navigazione nello stretto di Hormuz, compreso tra la punta nord-orientale della penisola araba e l’Iran meridionale. Un ipotetico conflitto tra l’Iran e i suoi avversari principali (Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele) avrebbe inevitabilmente interessato lo Stretto, che costituiva anche per la Repubblica Islamica la principale via di sbocco per le proprie esportazioni. Per tale ragione è emerso da subito l’obbiettivo strategico del Qatar di stabilizzare l’intera area del Golfo e da tale presupposto ha preso avvio la complessa architettura diplomatica dell’Emirato. Grazie al suo sviluppo economico e ai sempre maggiori introiti finanziari, a partire dai primi anni 2000 il Qatar ha intrapreso una vasta azione di mediazione oltre i confini della regione, presentandosi come conciliatore imparziale in numerosi conflitti su scala internazionale, tra cui quelli in Yemen, Darfur, Libano, Gibouti-Eritrea, Afghanistan e in quelli più recenti di Russia-Ucraina e Palestina-Israele.
In tali contesti, la mossa decisiva per convincere i Paesi belligeranti ad avviare le negoziazioni e far cessare le ostilità era la promessa da parte dell’Emirato di centinaia di milioni di dollari in investimenti o in aiuti per la ricostruzione post conflitto. Una strategia dettata dall’enorme ricchezza finanziaria del Paese e integrata in una visione più ampia, che contempla uno strumento essenziale della politica estera del Qatar: il soft power. Concettualmente è la capacità di uno Stato di persuadere e attrarre a sé determinati soggetti attraverso l’uso di strumenti immateriali quali la cultura, l’intrattenimento e lo sport senza ricorrere a coercizioni o uso della forza.
Un esempio concreto di attuazione del soft power è stata la diffusione dell’immagine degli Stati Uniti nel mondo tramite film, sport, scienza e tecnologia, che ha caratterizzato una lunga parentesi del XX secolo ed è stata in grado di generare una certa volontà di imitazione da parte di altri Stati e persone. Per quanto riguarda il Qatar, il soft power ha preso avvio agli inizi del 2000 con una serie di eventi di respiro internazionale che si sono svolti nell’Emirato. Tra questi, la prestigiosa conferenza inaugurale del ciclo di negoziati dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), la COP18, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e nel 2022 il campionato mondiale di calcio. Inoltre prestigiose università statunitensi (Cornell, Georgetown, Texas A&M) hanno istituito dei campus universitari all’interno dei confini dell’Emirato, accrescendo l’appeal accademico dello Stato. Inoltre, un ruolo fondamentale nella proiezione mediatica del Qatar è stata la nascita nel 1996 di al-Jazeera, che sarebbe diventata il primo network globale del mondo arabo in grado di competere a livello internazionale con reti del calibro di CNN e BBC.
Oltre a queste forme di “diplomazia culturale e mediatica”, il Qatar ha coltivato relazioni strategiche con i movimenti islamisti, impiegando questa leva di soft power per definire e ampliare il proprio ruolo sia in ambito regionale che internazionale. Sin dagli anni ’50 l’Emirato ha dato rifugio a esponenti della Fratellanza Musulmana, un movimento politico-religioso nato in Egitto che si proponeva di riportare al centro della vita quotidiana delle persone l’Islam, non solo in quanto religione ma anche come guida per la politica, la società e l’economia. I principi del movimento, fondati sulla Sharia, cominciarono a diffondersi nell’area mediorientale ma furono osteggiati dal nazionalismo laico di Gamal Abdel Nasser, al governo dell’Egitto nei primi anni ’50 e da vari Paesi dell’area tra cui Siria e Iraq.
I fratelli musulmani furono costretti ad emigrare all’estero e tra i Paesi ospitanti proprio il Qatar dove molti di essi, intellettuali e professionisti altamente qualificati, trovarono opportunità di inserimento nelle istituzioni pubbliche contribuendo al processo di modernizzazione dell’Emirato. Questa integrazione è stata agevolata dalla condivisione nell’approccio all’Islam tra i fratelli musulmani e l’attuale dinastia regnante nel Paese, la monarchia assoluta degli al-Thani, che ha garantito al potere qatarino anche il mantenimento del consenso dell’opinione pubblica. Infatti, agli occhi sia della popolazione locale che della più ampia opinione pubblica araba, il Qatar si presenta come uno dei pochi governi rimasti vicini alle istanze di quell’ampia fetta della popolazione araba più sensibile ai temi identitari dell’Islam tradizionale, nonché, grazie al sostegno a Hamas e alla narrativa veicolata tramite al-Jazeera, alla causa palestinese.
Tale relazione con la Fratellanza Musulmana e i movimenti islamisti del mondo arabo, anche radicali e con tendenze fondamentaliste, pur rappresentando per il Qatar un’opportunità di affermazione nella regione, non è stata tuttavia esente da rischi e difficoltà. Da un lato ha fornito a Doha una peculiare postura strategica sia all’interno del mondo arabo che oltre confine, con la possibilità di intessere relazioni diplomatiche con i più importanti attori della scena internazionale. Dall’altro, nel corso degli anni il Qatar ha dovuto trovare un equilibrio tra le alleanze con l’Islam politico e quelle con i Paesi occidentali, in primis gli Stati Uniti. Non è un segreto che all’interno dei confini dell’Emirato è presente la più grande base militare statunitense in Medio-Oriente, quella di al-Udeid, che ospita oltre 10mila soldati americani e garantisce al Qatar la designazione di “maggiore alleato non NATO” da parte del governo americano.
Tuttavia, proprio l’equilibrismo multilaterale dell’Emirato, storicamente definito dalla narrativa occidentale ambiguo e ricco di contraddizioni, ha rappresentato la chiave del successo di Doha nelle relazioni internazionali. Nata nel contesto del Golfo dalla volontà di indipendenza rispetto al grande vicino saudita e agli Emirati arabi, la politica estera del Qatar ha maturato nel tempo un percorso autonomo di eccellenza nell’apertura diplomatica al resto del mondo e nella mediazione dei conflitti. Con un team negoziale estremamente ristretto e di altissimo livello, composto essenzialmente dall’emiro, dal primo ministro e dal capo dei negoziatori, viene garantita pochissima burocrazia e al tempo stesso rapidità, affidabilità e segretezza delle trattative. Tra le altre cose, l’Emirato è probabilmente l’unico Paese al mondo ad avere la mediazione inserita in Costituzione, in base alla quale la politica estera del Paese deve mirare al rafforzamento della pace e della sicurezza internazionale, incoraggiando la risoluzione pacifica dei conflitti. In ultima analisi nel caso del Qatar, dati i numerosi successi ottenuti, se è vero che investimenti finanziari e soft power non possono tutto, è bene ricordare che comunque possono moltissimo.