Quei cannoni italiani venduti al Myanmar in guerra…

di C. Alessandro Mauceri

imageQualche giorno fa un deputato italiano, Gianluca Rizzo, ha presentato in Parlamento un’interrogazione “a risposta scritta” (la C. 4_07348) con la quale si chiedeva chiarezza in merito ad una notizia pubblicata su alcuni giornali circa la presunta vendita di armi e armamenti prodotti da aziende italiane a Paesi verso quali tale vendita è vietata.
La vendita di armi e armamenti, che frutta alle aziende italiane (e allo Stato che è azionista di alcune tra le maggiori produttrici di tali beni) oltre due miliardi euro ogni anno, è regolamentata da norme precise. Ciò nonostante, molte volte questo florido mercato mostra il suo lato oscuro.
Nel 2008, ad esempio, quasi scoppiò uno scandalo internazionale quando si venne a sapere della vendita al Myanmar, Paese in guerra da decenni, di un elicottero militare contenente tecnologia e componenti forniti da almeno sei Stati dell’Unione Europea, tra cui l’Italia (1). Vendita che avrebbe costituito una violazione dell’embargo deciso dall’UE per la fornitura di armi a questo Paese asiatico.
Qualche mese fa è stata la volta della vendita da parte dell’Italia di armi che si pensava fossero state distrutte molti anni prima, nel 2006, ad un altro Paese, anche questo in guerra. Azione questa che è espressamente vietata dall’Arms Trade Treaty ratificato da Palazzo Madama nel 2013, ma soprattutto in palese contrasto con quanto previsto dalla legge 185/90 che proibisce la “vendita di armi e armamenti a Paesi in conflitto o che violino i diritti umani”.
L’interrogazione presentata al Parlamento nei giorni scorsi riguarda lo stesso Paese, la Birmania (il nome comune del Myanmar). Secondo la notizia riportata dai giornali sia italiani che stranieri armi prodotte da un’azienda italiana, la Oto Melara, controllata di Finmeccanica, cioè i cannoni navali compatti Oto Breda da 76 mm, sarebbero utilizzate come primo equipaggiamento dalla Marina militare del Myanmar per le proprie navi (2). Il problema è che la vendita di queste armi alla Birmania costituirebbe una palese violazione dell’embargo sancito dall’Unione Europea (la Decisione 2013/184/PESC), il quale ribadisce che “Sono vietati la vendita, la fornitura, il trasferimento o l’esportazione al Myanmar/Birmania di armamenti e materiale connesso di qualsiasi tipo, comprese armi e munizioni, veicoli e materiale militari, materiale paramilitare e relativi pezzi di ricambio, nonché materiale che potrebbe essere utilizzato a fini di repressione interna, da parte degli Stati membri o in provenienza dal territorio degli Stati membri ovvero mediante navi o aeromobili battenti bandiera degli stessi, siano tali armamenti o materiali originari o non di detto territorio” (Art.1.a). E’ anche vietata la prestazione di servizi finanziari e di intermediazione connessi con la vendita di tali materiali militari “destinati ad essere utilizzati in Myanmar” (Art. 1.b) e “la partecipazione, consapevole e deliberata, ad attività aventi l’obiettivo o il risultato di eludere i divieti di cui sopra” (Art.1.c). Embargo di armi e sistemi militari che è stato confermato lo scorso aprile e prorogato fino al fino all’aprile 2015.
Il fatto che armi prodotte da un’azienda italiana (e per di più controllata da una compartecipata dallo Stato) siano finite sulle navi militari della Birmania sarebbe una grave violazione non di uno, ma di ben tre divieti ufficiali. Ma non basta. Al problema della vendita si aggiunge un altro problema, cioè all’esportazione dall’Italia di questi cannoni non figuri in nessuna delle relazioni che i vari governi hanno inviato alle Camere e neanche relazioni ufficiali dell’Ue nelle quali i governi nazionali sono tenuti a riportare gli armamenti e materiali militari che esportano nel mondo. Da qui la richiesta di chiarimenti avanzata dal deputato in Parlamento.
Il problema, quale che sia o sarà la risposta (non bisogna dimenticare che, come dicono i dati ufficiali della Camera, spesso le interrogazioni parlamentari restano senza seguito), è che la Birmania ha già montato queste armi sulle proprie navi da guerra (3). Lo dimostrerebbe un articolo pubblicato da una rivista specializzata (IHS Jane’s Navy International) che, nel riportare il varo di una di queste navi, sottolinea che “il cannone navale Oto Breda da 76mm è il maggiore sistema d’armamento” ed è la sua arma principale. Altre foto confermano la presenza di cannoni prodotti dall’azienda italiana sulle navi della Marina militare birmana. Anche il database del SIPRI di Stoccolma riporta che questi cannoni, prodotti dalla consociata di Finmeccanica, farebbero parte della dotazione di serie delle navi della Marina militare del Myanmar.
Il fatto è che il mercato della vendita di armi e armamenti è sempre fiorente (anche se in leggero calo negli ultimi due anni) e i canali per far arrivare i prodotti europei e italiani dove forse non dovrebbero arrivare, non sono pochi.
I beni prodotti dall’azienda italiana oggetto dell’interrogazione parlamentare e quelli prodotti da altre aziende controllate da Finmeccanica, sono parte rilevante della produzione (e del fatturato) delle aziende produttrici di armi italiane. Aziende che hanno rapporti d’affari proficui con diversi Paesi asiatici tra cui l’India. Lo dimostra un articolo pubblicato dal mensile indiano “Force” dopo una visita un paio d’anni fa di una delegazione della Marina militare indiana proprio presso alcune aziende del gruppo Finmeccanica, tra le quali la Oto Melara (l’azienda che produce i cannoni oggetto dell’interrogazione). L’articolo parla di un “accordo aperto”: pare che gli stessi cannoni italiani facciano parte della dotazione di serie di ben 22 navi della Marina militare indiana e della Guardia Costiera. Anzi, il mensile indiano dice addirittura che “secondo i funzionari della Oto Melara, l’accordo con BHEL prevede anche la possibilità di esportazione di questi cannoni se la BHEL ne ha l’opportunità” (4).
Cosa strana, dato che anche l’India è un Paese in guerra (con il Pakistan). E, quindi, anche la vendita di armi all’India dovrebbe essere proibita dalla legge 185/90. Figurarsi poi stipulare accordi per la vendita di armi ad un Paese “in guerra” ben sapendo che questo potrà rivenderli ad altri Paesi in guerra. Paesi come la Birmania.
Da qui l’interrogazione del deputato al Parlamento.
Ma non basta. La legge prevede che la vendita a Paesi esteri di armi e armamenti prodotti in Italia debba essere riportata annualmente in un apposito rapporto. Ebbene nell’ultimo rapporto (quello relativo alla vendita delle armi nel 2013, reso noto con tre mesi di ritardo rispetto alla data prevista) non risulta alcuna vendita di armi o di armamenti né all’India né alla Birmania (sebbene il rapporto riporti un 26% della vendita di armi destinata al “Resto del mondo”). Come hanno fatto a finire quelle armi nella dotazione di serie delle marine di entrambi i Paesi? Paesi che, è bene ricordarlo, sono entrambi protagonisti di guerre che vanno avanti da decenni (da qui l’embargo della vendita di armi). Senza contare che, sempre stando ai fatti, armi prodotte da aziende italiane sono finite nelle mani di entrambi i contendenti di una stessa guerra. Come nel caso del conflitto tra India e Pakistan: se per la vendita di queste armi all’India non è ben chiaro come abbiano fatto i cannoni italiani ad essere finiti sulle navi indiane, per il Pakistan non ci sono dubbi, dal momento che l’ultimo rapporto ufficiale riporta vendite di armi o armamenti da parte delle aziende italiane il per il 2,6% del totale prodotto nel Bel Paese.
Il tutto senza che Parlamento, Unione Europea e Organizzazioni internazionali abbiano avuto niente da dire. Pare che non abbiano avuto niente da dire neanche gli istituti finanziari che hanno appoggiato le transazioni: oltre il 40% del commercio di armi e armamenti italiane, infatti, è passato per le casse della Deutsche Bank, per un totale di 1.167.140.381,18 di euro.

Note:
1 – Cfr. “Amnesty International chiede una “norma inderogabile” sui diritti umani perché un Trattato sul commercio di armi sia davvero efficace” – Sito Amnesty International;
2 – Cfr. Marco Sarti, “Armi italiane ai militari birmani. nonostante l’embargo” – Linkiesta, 6.1.2015;
3 – Wikipedia, “Marina militare birmana“;
4 – “With shrinking global markets, India is the partner of choice for Finmeccanica” – Force, ott. 2012;