di Giuseppe Gagliano –
Il 16 gennaio scorso l’Unione Africana ha evitato di condannare l’offensiva militare ruandese nella Repubblica Democratica del Congo (RDC). Stessa cautela adottata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che si è limitato a raccomandare il dialogo senza mai citare Kigali. La domanda sorge spontanea: come fa il presidente ruandese Paul Kagame a sfidare impunemente la cosiddetta “comunità internazionale”?
L’offensiva del gruppo ribelle M23 – da sempre considerato un proxy del Ruanda – non è una novità nella tormentata storia del Congo. Già nel 2013, la sua avanzata su Goma fu fermata solo grazie alla pressione internazionale e a negoziati forzati. Oggi, la situazione è diversa. Il Ruanda non si nasconde più dietro sotterfugi diplomatici: migliaia di soldati delle Forze di Difesa Ruandesi (RDF) sono direttamente coinvolti nei combattimenti, con un arsenale militare moderno che ben poco ha a che fare con le dotazioni di un semplice gruppo ribelle.
Dietro questa guerra “non dichiarata” si cela una realtà fin troppo ovvia: il controllo delle risorse minerarie congolesi. Oro, coltan, cobalto – minerali strategici per l’industria tecnologica globale – alimentano l’economia ruandese ben oltre le capacità estrattive del piccolo Stato. E qui entra in gioco l’Occidente, il vero convitato di pietra di questa crisi.
Da un lato Bruxelles e Washington si affrettano a rinnovare accordi commerciali con Kigali, garantendo un approvvigionamento “sostenibile” di materie prime. Dall’altro, lanciano timide esortazioni affinché Kagame “contena” le sue ambizioni territoriali. Il risultato? Un doppio standard che grida vendetta: l’Unione Europea, ad esempio, ha finanziato con 40 milioni di euro la missione militare ruandese in Mozambico per combattere il jihadismo a Cabo Delgado, nonostante fosse già chiaro il ruolo di Kigali nel sostegno all’M23.
La verità è che il Ruanda è diventato un partner troppo utile per essere ostacolato. Nell’era della nuova Guerra Fredda, dove l’Africa è sempre più un campo di battaglia tra influenze occidentali, russe e cinesi, Kagame è visto come un baluardo contro l’espansione di Mosca e contro l’instabilità jihadista. Il costo? Il silenzio colpevole sulla sua politica espansionistica nel Congo orientale.
Dall’altra parte la RDC appare come sempre fragile e divisa. Il presidente Félix Tshisekedi ha dimostrato scarsa capacità nel gestire la crisi: le sue forze armate soffrono di inefficienza, corruzione e scarsa preparazione. L’M23 non solo avanza militarmente, ma ha trovato anche un alleato di peso: Corneille Nangaa, ex presidente della Commissione Elettorale Nazionale Indipendente del Congo, oggi a capo di una nebulosa coalizione di gruppi armati.
Kinshasa chiede aiuto, ma le capitali occidentali rispondono con promesse vuote. La Francia di Macron, sempre più in difficoltà in Africa dopo la cacciata delle sue truppe dal Sahel, non vuole esporsi troppo. Gli Stati Uniti, distratti dalla crisi in Medio Oriente e dalla guerra in Ucraina, evitano di compromettere la loro partnership con Kagame. E così, il conflitto prosegue, alimentando una delle peggiori crisi umanitarie al mondo, con milioni di sfollati e migliaia di morti.
Paul Kagame ha compreso meglio di chiunque altro le debolezze della diplomazia occidentale. Sa che, finché il Ruanda sarà utile agli interessi strategici di Washington e Bruxelles, potrà permettersi di agire senza temere sanzioni serie. Sa che il Congo è troppo debole per rappresentare una minaccia reale e che l’indignazione internazionale è destinata a svanire nel ciclo continuo di emergenze globali.
Ma fino a quando durerà questa impunità? L’espansionismo di Kagame potrebbe spingersi troppo oltre, innescando reazioni più decise da parte dei vicini africani o dell’Occidente stesso. Oppure, il rischio più grande potrebbe venire dall’interno: il Ruanda, descritto come un modello di sviluppo, è in realtà uno Stato iper-controllato, dove il dissenso viene soffocato con metodi autoritari. E la storia insegna che i regimi basati sul culto della personalità e sul pugno di ferro non sono eterni.
Nel frattempo, però, il Congo continua a sanguinare. E l’Occidente, che si proclama difensore del diritto internazionale, dimostra ancora una volta che la morale è una variabile dipendente dagli interessi geopolitici.