di Giuseppe Gagliano –
La guerra nell’est della Repubblica Democratica del Congo è un conflitto senza fine. Da decenni le province del Nord e del Sud Kivu sono teatro di scontri che sembrano ripetersi come un copione immutabile: tregue annunciate e mai rispettate, accordi firmati e puntualmente violati, interventi internazionali che non producono risultati concreti. L’ultima tregua, negoziata sotto la regia di Qatar con il sostegno di Unione Africana e degli Stati Uniti, avrebbe dovuto segnare un passo avanti verso la pacificazione. Ma si è rivelata, ancora una volta, un castello di sabbia.
Il documento negoziato a Doha prometteva un “meccanismo di integrazione economica e regionale” capace di offrire un quadro più stabile alla transizione del Congo verso la sicurezza e la crescita. A parole, si trattava di un’intesa che avrebbe dovuto coinvolgere anche il Rwanda, storicamente accusato di sostenere gruppi armati operanti sul suolo congolese. L’idea era quella di garantire un cessate il fuoco, smantellare le milizie, reintegrarne i combattenti e restituire al governo di Kinshasa il controllo del territorio conteso.
Ma la sostanza è stata debole fin dall’inizio. Gli accordi non hanno previsto scadenze precise né meccanismi stringenti per far rispettare gli impegni. In più la principale leva prevista, cioè il ritiro delle truppe dell’M23 e la neutralizzazione delle Forze Democratiche per la Liberazione del Rwanda (Fdlr), è rimasta nel limbo. L’ambiguità è voluta: serve a garantire a Kigali un margine di manovra e a Kinshasa una copertura diplomatica. Ma non serve a fermare la guerra.
Il gruppo Movimento 23 Marzo (M23), attore principale di questa crisi, controlla sempre più porzioni di territorio nel Nord e nel Sud Kivu. Si tratta di un’organizzazione armata ben strutturata, con catene di comando efficienti e una logica para-statale. Gestisce risorse, impone tasse, organizza traffici. Non è più solo una milizia: è un potere alternativo. Le forze congolesi, spesso mal equipaggiate e disorganizzate, non riescono a riconquistare le aree occupate.
La dichiarazione di cessate il fuoco è rimasta lettera morta. Gli scontri si sono anzi intensificati nelle settimane successive alla firma, soprattutto nei pressi di Goma e Bukavu. Le truppe congolesi hanno continuato a bombardare zone abitate, mentre l’M23 ha rafforzato le proprie posizioni strategiche. Nonostante la presenza di osservatori internazionali, l’accordo non è mai entrato in una fase operativa credibile.
Sul conflitto pesa la storica rivalità tra Kinshasa e Kigali. Per il Rwanda, il controllo del Nord Kivu significa sicurezza strategica e accesso a risorse minerarie fondamentali, ovvero coltan, oro e stagno, che alimentano un’economia parallela ma estremamente redditizia. Per il Congo, invece, si tratta di difendere la propria integrità territoriale e la sovranità statale, sempre più erosa dall’influenza dei gruppi armati e dalle interferenze esterne.
Il coinvolgimento del Qatar e degli Stati Uniti risponde a logiche più ampie: Doha cerca di accreditarsi come mediatore globale, mentre Washington punta a evitare che il vuoto lasciato dall’instabilità congolese venga riempito da potenze concorrenti, soprattutto la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese. Ma la capacità reale di queste potenze di imporre una soluzione stabile è, per ora, molto limitata.
Ogni giorno di conflitto significa per le milizie nuovi introiti derivanti dal contrabbando di minerali, armi e materie prime. L’M23 e altre formazioni armate si finanziano con risorse locali e reti transfrontaliere. Anche settori delle élite politiche e militari congolesi traggono vantaggio da questa economia grigia. È questo uno dei motivi principali per cui la guerra si trascina da decenni: non è solo un conflitto ideologico o etnico, ma una struttura economica radicata, con attori che non hanno alcun interesse reale a farla finire.
Il processo negoziale, così come è stato concepito, non affronta questo nodo. Parlare di transizione energetica, integrazione regionale o riconciliazione è inutile se non si spezzano i meccanismi finanziari che tengono in piedi il conflitto.
La RD Congo si trova in un vicolo cieco: l’esercito nazionale è troppo debole per sconfiggere militarmente l’M23, la diplomazia internazionale è troppo frammentata per imporre una soluzione, e i vicini, a cominciare dal Ruanda, hanno troppi interessi per disimpegnarsi davvero. L’accordo di Doha non è che l’ennesimo tentativo destinato a fallire.
Senza un intervento più incisivo e una strategia che colpisca il cuore economico della guerra, la regione dei Grandi Laghi continuerà a vivere sospesa tra tregue illusorie e nuove ondate di violenza. Ed è questa la verità amara che si nasconde dietro le foto di gruppo e le dichiarazioni solenni.












