di Giuseppe Gagliano –
Dopo decenni di guerre intermittenti, massacri su vasta scala e milioni di sfollati, un barlume di pace si è acceso tra la Repubblica Democratica del Congo (RDC) e il Ruanda. Il 27 giugno, nella sobria cornice del Dipartimento di Stato a Washington, i ministri degli Esteri dei due Paesi hanno firmato un accordo di pace mediato da Stati Uniti e Qatar. Un’intesa tanto ambiziosa quanto carica di ambiguità, che cerca di contenere un conflitto mai davvero cessato dall’epilogo del genocidio ruandese del 1994.
I punti centrali dell’accordo parlano chiaro: il Ruanda dovrà ritirare entro tre mesi le sue truppe dalla RDC; Kinshasa e Kigali si impegnano a istituire un meccanismo di coordinamento congiunto sulla sicurezza entro 30 giorni; e a varare, in 90 giorni, un quadro di integrazione economica regionale. Una road map diplomatica sulla carta impeccabile, ma che si infrange subito su una realtà stratificata e instabile.
In primo luogo, il patto non menziona quando e come avverrà il ritiro dei ribelli del M23, il gruppo armato sostenuto dal Ruanda che ha assunto il controllo di intere porzioni del Nord e Sud Kivu, comprese le capitali provinciali, aeroporti e gangli strategici. E non è un dettaglio secondario. Sul campo, secondo Al Jazeera, regna la confusione: Kigali nega ogni responsabilità diretta sull’M23 e afferma che il loro disarmo spetta a Kinshasa. Ma intanto i governatori delle province congolesi vengono nominati dai ribelli, e le attività estrattive proseguono sotto tutela armata.
Le radici del conflitto, del resto, affondano lontano. Dopo il genocidio ruandese, centinaia di miliziani hutu responsabili dei massacri si rifugiarono nella RDC, fondando le FDLR (Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda), che Kigali oggi vuole “neutralizzare”. Il Ruanda ha insistito affinché l’accordo sancisca la “fine irreversibile e verificabile” del sostegno congolese a questi gruppi, accusati di perpetrare attacchi transfrontalieri. In altre parole, pace sì, ma solo a condizione che il Congo ripulisca militarmente il proprio territorio secondo gli interessi di Kigali.
La ministra degli Esteri congolese, Thérèse Wagner, ha parlato con solennità: “Questo momento si è fatto attendere a lungo. Non cancellerà il dolore, ma può ripristinare la sicurezza, la dignità e il senso del futuro”. E ha aggiunto: “Adesso il vero lavoro comincia”, indicando la necessità di giustizia, rientro dei profughi e ricostruzione dello Stato.
Ma dietro la retorica della pace, emergono anche altri interessi. Quelli minerari. L’accordo firmato a Washington non è solo un evento diplomatico africano, ma un capitolo della contesa globale tra Stati Uniti e Cina per l’accesso alle risorse strategiche dell’Africa centrale. La RDC possiede risorse stimate in 24mila miliardi di dollari, in particolare tantalio, cobalto, rame, oro e litio – materiali fondamentali per l’industria digitale, l’energia e la difesa.
Non a caso, Donald Trump ha sottolineato con disarmante franchezza: “Otterremo, per gli Stati Uniti, molti diritti minerari dal Congo. Sono così onorati di essere qui. Non avrebbero mai pensato di venire”. La mediazione è stata guidata da Massad Boulos, imprenditore libanese-americano e suocero della figlia di Trump, Tiffany, recentemente nominato consigliere presidenziale per l’Africa. Un diplomatico “familiare”, direbbero i cinici, in linea con lo stile trumpiano.
Il Segretario di Stato Marco Rubio ha celebrato l’intesa come “una svolta dopo trent’anni di guerra”. Ma gli osservatori sono più cauti. I combattimenti nelle province orientali non si arresteranno solo grazie a una firma, e finché il potere reale sarà esercitato da milizie ribelli con protezione regionale, ogni parola sulla stabilizzazione del Congo suonerà come un’illusione cartografica.
Infine, resta l’amara lezione storica: dal 1996 a oggi, le guerre nel Congo orientale hanno provocato oltre cinque milioni di morti, in una spirale di violenza che ha coinvolto almeno nove eserciti africani e decine di milizie. Un conflitto dimenticato dai media occidentali, ma strategico per le multinazionali dell’estrazione.
La pace siglata a Washington, allora, sarà credibile solo se riuscirà a scardinare il triangolo mortale tra ribellione, risorse e geopolitica. In caso contrario, si rivelerà solo un altro capitolo della lunga storia in cui l’Africa paga la propria ricchezza con la propria distruzione.