Recensione a Jan Zielonka, “Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione europea”

di Giovanni Ciprotti –

Quante volte abbiamo sentito parlare del Medioevo come di una “epoca dell’oscurantismo”? Quante volte la società feudale è stata considerata più retrograda di quelle che l’hanno preceduta e seguita? Benché da tempo gli storici abbiano messo in discussione il giudizio totalmente negativo nei confronti del feudalesimo cercando di spiegarne anche gli aspetti positivi, nell’immaginario collettivo Medioevo continua spesso ad essere sinonimo di “buio”. Qualunque sia l’opinione che il singolo individuo ha di quel periodo, sembra che il futuro riservi a noi europei una sorta di ritorno a quel tipo di passato. E’ quanto spiega Jan Zielonka nel suo libro “Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione europea”, pubblicato il mese scorso dalla casa editrice Laterza.
L’autore afferma che l’unica possibilità per salvaguardare il processo di integrazione europea è non fare più affidamento sull’Unione Europea, dimostratasi un paradigma inadeguato per rispondere alle esigenze dei cittadini europei. Una inadeguatezza evidente, potremmo aggiungere. La UE, complice il processo decisionale prevalentemente intergovernativo, non ha saputo individuare una linea d’azione comune in nessuna vicenda di rilievo, dalla immigrazione alle diverse crisi regionali scoppiate non lontane dai suoi confini o comunque in aree geografiche dove sono presenti consistenti interessi europei, dalla Ucraina alla Libia alla Siria. Zielonka esclude la possibilità di riprendere il percorso verso una Europa federale e indica come unica via d’uscita un modello neomedievale, spiegandone gli elementi essenziali.
Il modello ipotizzato nel libro prefigura “un’Europa formata da un gran numero di reti e associazioni complesse. E’ probabile che il rapporto tra territorio, autorità e diritti cambierà parecchio, non in base a un piano deliberato, ma come conseguenza della carenza di
governance e delle pressioni transnazionali […] Una pluralità di alleanze politiche, una molteplicità di giurisdizioni sovrapposte, un sistema di governance policentrico, un’eterogeneità culturale e istituzionale sempre più diffusa erano condizioni note in Europa
durante tutto il Medioevo. Il nuovo assetto sarà più fluido e al passo coi tempi, ma non sarà particolarmente insolito”.
Il motore della integrazione nel nuovo modello di Europa sarebbe una pluralità di “reti integrative”, la cui struttura “dovrebbe essere policentrica e non gerarchica, somigliante a molti anelli orizzontali piuttosto che a un’unica piramide verticale”. Tali reti si svilupperebbero “senza un programma istituzionale generale” e dovrebbero “rispettare la legislazione europea e nazionale, ma senza un unico centro europeo che sovrintenda alle loro attività”.
I nodi componenti le reti integrative potrebbero essere entità politico-amministrative diversificate come le regioni, le città metropolitane e persino le Ong, che interagiranno in maniera “fluida” con gli Stati nazionali, i quali non moriranno ma dovranno trasformarsi per adeguarsi alle nuove dinamiche.
Ciascuna rete nascerà e si rafforzerà attorno ad una esigenza specifica: il trasporto pubblico, la difesa dell’ambiente, il diritto d’asilo, la qualità dei vini e così via. Questa intrinseca flessibilità dovrebbe garantire una maggiore efficacia nell’affrontare le singole tematiche, pur nel rispetto della legislazione europea. Ma chi deterrà il potere legislativo, se l’attuale Parlamento europeo viene descritto come un’assemblea poco rappresentativa e per questo non sufficientemente legittimata? E chi quello esecutivo? E se non sarà più un centro europeo a controllare sull’operato delle varie entità, chi avrà l’onere di verificare la corretta applicazione delle norme vigenti e di erogare le relative sanzioni nei casi di violazione della legge?
Sono solo alcuni degli interrogativi ai quali il libro non fornisce risposte chiare. Quando poi la riflessione si sposta sul piano dei rapporti con aree geografiche esterne all’Europa, il modello proposto appare ancora meno convincente.
In primo luogo, l’attenzione sembra focalizzata sugli equilibri tra gli Stati membri della UE, distinguendo i piccoli dai grandi, i debitori dai creditori, gli efficienti dai disorganizzati, ma non vi è quasi traccia delle interdipendenze tra l’entità Europa – qualunque forma debba o possa assumere – e agli altri grandi attori geopolitici mondiali, né di come una Europa neomedievale potrebbe efficacemente relazionarsi con essi.
Sul tema delle sicurezza collettiva l’autore si limita a stigmatizzare l’abitudine dei Paesi membri UE a procedere in ordine sparso, ma non propone un’alternativa credibile che consenta di superare questo limite.
“(Gli Stati membri dell’UE) hanno più volte votato gli uni contro gli altri in seno alle Nazioni Unite e hanno condotto la maggior parte delle loro operazioni di sicurezza al di fuori del quadro dell’UE, attraverso coalizioni informali dei volenterosi, gruppi di contatto o iniziative bilaterali”.
L’esposizione non chiarisce come il modello proposto possa risultare migliorativo rispetto alla situazione odierna, senza un centro decisionale riconosciuto a livello sovranazionale, un “ministro” della politica estera europea e ovviamente una difesa europea. Se non riusciamo a risolvere questi temi cruciali, dovremo rassegnarci ad assistere ad iniziative unilaterali, diplomatiche o militari, di singoli Paesi come è accaduto durante la crisi ucraina, con la signora Merkel che ha negoziato un accordo direttamente con Putin, o con le
missioni franco-britanniche in Libia, per le quali la decisione non era stata presa a Bruxelles. Oppure dovremo limitarci ad intervenire nell’ambito delle azioni Nato, vale a dire inseriti in piani strategici delineati in buona sostanza a Washington.
All’autore va riconosciuto il merito di voler riportare al centro del dibattito pubblico la questione sul futuro dell’Europa, ma l’immagine descritta non sembra rappresentare un’Europa con più chances di quante ne abbia oggi di competere attivamente ed autonomamente sullo scacchiere internazionale.
Lo scenario suggerito da Zielonka sembra quasi una riedizione, su scala europea, dell’Italia dei Comuni e delle Signorie, una struttura politica che rese il nostro Paese vulnerabile dal punto di vista della sicurezza e nei secoli successivi assoggettato a dominazioni straniere
di ogni tipo.
Qualcuno è disposto a correre rischi analoghi nel XXI secolo?
L’Europa ha un disperato bisogno di modificare il proprio assetto politico-istituzionale per reggere le sfide del futuro. Ma le riforme devono portare ad un rafforzamento della Unione e il modello immaginato dall’autore non è detto che riesca a soddisfare tale esigenza.
Prima di abbandonare il sentiero che potrebbe condurre ad una Europa federale, può essere utile riflettere su una famosa battuta degli anni Settanta attribuita ad Henry Kissinger: “chi devo chiamare se voglio parlare con l’Europa?”.