di Giuseppe Gagliano –
Andrej Babis torna al centro della politica ceca con una vittoria che segna non solo il suo rilancio personale, ma anche la ricomposizione delle destre populiste dell’Europa Centrale. L’accordo raggiunto tra il suo movimento ANO, l’estrema destra di Libertà e Democrazia Diretta (SPD) e il Partito degli Automobilisti definisce un governo chiaramente orientato a destra, euroscettico e profondamente contrario alle politiche climatiche e migratorie di Bruxelles. I tre pilastri simbolici della nuova coalizione — macchine, carbone e corona — raccontano molto più di un programma economico: sono la dichiarazione d’indipendenza di un Paese che non vuole più allinearsi automaticamente al centro di gravità dell’Unione Europea.
L’incarico conferito dal presidente Petr Pavel a Babis apre una fase nuova. L’ex premier, già accusato in passato di clientelismo e legami con l’oligarchia economica, ora cavalca un’onda che non è più solo nazionale. Accanto a Viktor Orbán in Ungheria e a Robert Fico in Slovacchia, la Repubblica Ceca può tornare a formare un mini-Visegrad euroscettico, capace di contrastare da dentro le iniziative comunitarie più divisive: dal Green Deal alla politica migratoria, dal sostegno militare a Kiev al progetto di abolire i motori termici. Un fronte che, pur restando dentro l’Unione, mira a piegarne la direzione verso il pragmatismo economico e la difesa delle sovranità nazionali.
È una tendenza chiara: dopo anni in cui Praga è stata considerata un bastione dell’atlantismo grazie al governo Fiala, oggi la bussola politica ruota verso Est. Non nel senso di un allineamento con Mosca, ma di un ritorno a un europeismo selettivo, dove contano prima di tutto l’industria nazionale, il prezzo dell’energia e la libertà di decidere sul proprio futuro produttivo.
La Repubblica Ceca vive di manifattura e di industria automobilistica, settori fortemente intrecciati con la Germania. La transizione ecologica imposta da Bruxelles, con il suo calendario di stop ai motori a combustione e la spinta verso l’elettrico, rischia di minare questa dipendenza simbiotica. Da qui nasce la protesta che ha portato in Parlamento il Partito degli Automobilisti e che trova in Babis un interprete abile del malessere produttivo. Non si tratta solo di nostalgia industriale, ma di una vera sfida strategica: salvaguardare la competitività nazionale in un’Europa dove le regole sono spesso scritte da chi ha già vinto la partita tecnologica.
Sul piano economico, Babis dovrà muoversi tra due fuochi. Da un lato, l’esigenza di mantenere stabili i rapporti commerciali con Berlino e Bruxelles; dall’altro, la pressione populista interna che chiede protezionismo, sussidi e autonomia. Il margine di maggioranza, 108 seggi su 200, non gli consente grandi avventure. Ma la posta in gioco è alta: la ridefinizione dell’identità economica di uno dei Paesi più industrializzati dell’Europa orientale.
Sul fronte internazionale, il tandem Babis-Orbán può diventare decisivo per rallentare l’agenda europea. Entrambi contrari all’invio di armi all’Ucraina, sostengono la necessità di un approccio negoziale e di una revisione del sistema delle sanzioni contro la Russia. In questo contesto, la Repubblica Ceca potrebbe trasformarsi da partner fedele della NATO a voce dissonante nel coro occidentale. Senza uscire dal quadro atlantico, ma spingendo per un’Europa “a geometria variabile” in cui le scelte militari e industriali non siano più imposte da Bruxelles.
L’effetto politico di questa virata non va sottovalutato: dopo la Polonia europeista di Tusk, un ritorno del blocco ceco-slovacco-ungherese può rendere più fragile la coesione dell’Unione, aprendo crepe tra i Paesi del Nord e quelli dell’Est. E può ridisegnare il baricentro del gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei, di cui fa parte Fratelli d’Italia, in direzione di un populismo pragmatico che guarda al consenso interno più che alle direttive comunitarie.
Andrej Babis torna dunque sulla scena non come ribelle, ma come negoziatore di un equilibrio nuovo. Il suo governo sarà “anti” per necessità e per retorica, ma la realtà economica lo costringerà presto al compromesso. In un’Europa dove la rabbia sociale e la fatica industriale si intrecciano, Praga diventa laboratorio di un nuovo nazionalismo economico: non più ideologico, ma difensivo. E se riuscirà a trasformare la protesta in progetto, l’ex magnate dell’agroindustria potrebbe segnare il ritorno della Repubblica Ceca nel gioco grande della politica continentale — non più come allievo dell’Occidente, ma come attore autonomo di un’Europa in bilico tra coesione e frammentazione.












