Russia. Dialogo con gli Usa: il caso del New START

di Giuseppe Gagliano

A San Pietroburgo, tra i ronzii dei droni di ultima generazione, Vladimir Putin ha scelto la giornata di ieri per lanciare un messaggio che sa di monito e di apertura: il New START, l’ultimo baluardo del controllo degli armamenti nucleari tra Russia e Stati Uniti, scadrà tra un anno. E Mosca, sospesa la sua partecipazione al trattato nel 2023, non sembra intenzionata a lasciarlo morire senza un negoziato. Ma quale negoziato? E con quali obiettivi? La visita alla fabbrica di droni non è stata casuale: un simbolo della potenza militare russa che dialoga, a distanza, con l’America di Donald Trump, tornata al timone con promesse di pace rapida e pragmatismo economico. Eppure, dietro le parole di Putin si intravede un mosaico geopolitico più complesso, fatto di mosse tattiche e ambizioni strategiche.
Il Trattato di riduzione delle armi strategiche, firmato nel 2010 e rinnovato nel 2021, limita missili balistici intercontinentali e testate nucleari, un residuo della Guerra Fredda che ha garantito una parvenza di stabilità tra le due potenze nucleari. Quando Putin, due anni fa, ne ha sospeso la partecipazione – senza abbandonarlo del tutto – ha posto una condizione: includere nei negoziati anche gli arsenali di Francia e Regno Unito, alleati NATO degli Stati Uniti. Una richiesta che sa di provocazione, ma anche di realismo: Mosca non vuole discutere di disarmo in un mondo dove il suo isolamento strategico è controbilanciato dalla crescente assertività dell’Alleanza Atlantica.
Ora, a un anno dalla scadenza, il presidente russo torna sul tema con un tono quasi conciliante. A Riyad, il 18 febbraio, Sergei Lavrov e Marco Rubio hanno discusso di “fiducia” e “collaborazione”, parole rare nel lessico recente delle relazioni russo-americane. Putin lo ha ribadito a San Pietroburgo: senza fiducia tra Mosca e Washington, non si risolve né la crisi ucraina né il destino del New START. Ma è una fiducia possibile? O è solo il preludio a un nuovo braccio di ferro?
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha cambiato il vento. Durante la campagna elettorale, prometteva una soluzione alla guerra in Ucraina “in 24 ore”. Ora, insediato e informato dalle agenzie di intelligence, parla di sei mesi. Putin, con un sorriso sardonico, ha commentato: “Non è un problema”. Ma il problema c’è, eccome. La guerra russo-ucraina resta il convitato di pietra di ogni dialogo tra le due potenze. Zelensky, da Kiev, accusa gli Stati Uniti di “compiacere” Putin, di trattarlo da vittima e non da aggressore, mentre respinge proposte americane sulle risorse naturali ucraine che mancano di garanzie solide. Washington, dal canto suo, istituisce “meccanismi di consultazione” con Mosca, un segnale di apertura che stride con le rassicurazioni di Rubio agli alleati europei: le sanzioni restano, almeno fino a un accordo di pace.
E poi c’è l’energia. Kirill Dmitriev, a Riyad, ha stimato in 324 miliardi di dollari le perdite delle aziende americane uscite dalla Russia dal 2022. McDonald’s e Caterpillar sono simboli di un esodo che ha lasciato spazio ai produttori locali, ma le major petrolifere, ExxonMobil in testa, scalpitano per tornare. Trump, ossessionato dall’idea di abbassare i prezzi del petrolio, sa che Russia e Arabia Saudita sono chiavi di volta. Putin lo sa altrettanto bene e rilancia il “formato a tre” del 2020 con Riyad e Washington, un triangolo energetico che potrebbe ridisegnare il mercato globale.
Cosa sta succedendo, davvero? Putin gioca su più tavoli. Da un lato, offre dialogo: il New START, l’Artico, il petrolio. Dall’altro, non cede di un millimetro sulle sue priorità: Crimea e Donbass non si toccano, la NATO non si espande. Trump, pragmatico fino al midollo, vede nella Russia un partner per stabilizzare i mercati e contenere la Cina, ma deve fare i conti con un Congresso sospettoso e un’Europa che teme di essere scavalcata. L’intelligence americana, citata da NBC, taglia corto: Putin non vuole la pace, vuole tempo.
Il New START, in questo scenario, è più di un trattato. È un termometro della volontà reciproca di evitare una nuova corsa agli armamenti, ma anche un’arma negoziale. Se Mosca lo usa per ottenere concessioni sull’Ucraina o sulle sanzioni, Washington potrebbe rilanciare chiedendo garanzie sulla non proliferazione o sul ruolo cinese nell’Artico. Entrambe le parti sanno che un fallimento avrebbe costi incalcolabili: un mondo senza limiti nucleari è un’ipotesi che nessuno, nemmeno i falchi di Mosca o i neocon di Washington, può permettersi di contemplare.
La verità è che siamo di fronte a una partita di scacchi dove la fiducia è un lusso e il pragmatismo una necessità. Putin e Trump si incontreranno, prima o poi, “ben preparato”, dice il russo, ma non illudiamoci: non sarà un abbraccio tra vecchi amici. Sarà un negoziato duro, con l’Ucraina, l’energia e il controllo degli armamenti come pedine di uno scambio che potrebbe ridisegnare gli equilibri globali. O lasciare tutto com’è, in un eterno stallo.