Russia. Putin respinge lo spettro della recessione, ma il sistema scricchiola

di Giuseppe Gagliano

Nella cornice scenografica del Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo, Vladimir Putin ha scelto la retorica dell’ottimismo per rispondere alle critiche crescenti sulla tenuta dell’economia russa. Citando Mark Twain con un’ironia calcolata, ha liquidato le preoccupazioni per una recessione come “voci esagerate”, rivendicando una crescita del PIL superiore al 4% negli ultimi due anni. Ma dietro le frasi ad effetto si cela una realtà molto più complessa.
La macchina economica russa, alimentata dall’impulso della spesa militare, comincia a dare segni di affaticamento. Lo ha detto chiaramente Elvira Nabiullina, governatrice della Banca Centrale, che ha parlato di un ciclo espansivo ormai agli sgoccioli, con strumenti monetari ormai “esauriti” e un’economia che si avvicina ai propri limiti strutturali. Persino il ministro delle Finanze, Anton Siluanov, ha evocato la metafora di un “raffreddamento”, mentre il ministro dell’Economia Reshetnikov ha lanciato un monito: la Russia è “sull’orlo della recessione”.
La risposta di Putin è stata quella del comandante che non può permettersi tentennamenti: l’obiettivo, ha detto, è evitare “a ogni costo” che la lotta all’inflazione e il raffreddamento del sistema produttivo spingano il Paese nella stagnazione. Ma il dato è evidente: il motore che ha spinto la crescita recente, cioè l’economia di guerra, mostra le prime crepe, e la riconversione verso settori civili risulta ancora lontana.
I numeri raccontano una verità ambivalente. Nei primi quattro mesi del 2025 il PIL è cresciuto dell’1,5%, ma secondo il Centre for Macroeconomic Analysis and Short-Term Forecasting, un think tank vicino al Cremlino, la maggior parte dei settori non legati alla difesa è già tecnicamente in recessione. La “ripresa” russa, dunque, è una ripresa armata, non generalizzata. E i segnali di una stagnazione sistemica si moltiplicano.
Anche i vertici di Sberbank, la maggiore banca russa, confermano l’allarme. Il vicepresidente Alexander Vedyakhin ha criticato la politica monetaria troppo restrittiva della Banca Centrale, che mantiene il tasso di interesse al 20% e soffoca gli investimenti privati. Solo il 6 giugno è stato attuato un primo, timido, taglio, di appena un punto percentuale. Per riattivare il credito, ha detto, servirebbero tassi compresi tra il 12 e il 14%.
Putin ha ammesso che l’inflazione, oggi attorno al 9%, è solo parte del problema. Ha definito “responsabile” la politica della banca centrale, ma l’ha anche accusata di ostacolare la crescita, soprattutto nei settori non strategici. La contraddizione è evidente: mentre Mosca si vanta di aver aggirato le sanzioni occidentali e di avere una resilienza economica invidiabile, il sistema dipende sempre più da una spesa bellica che non può durare all’infinito.
La guerra ha sì permesso alla Russia di rilanciare l’industria pesante e il complesso militare-industriale, ma ha anche accentrato il potere decisionale, ridotto la concorrenza, allontanato investitori stranieri e congelato il dinamismo economico interno. La cosiddetta “economia di stagnazione” prende forma in silenzio, mentre la propaganda ostenta fiducia e resilienza.
Alla fine, ciò che il Forum di San Pietroburgo ha mostrato è una leadership russa che continua a usare l’economia come arma retorica di legittimazione politica, ma che fatica a nascondere le tensioni sistemiche. Il rischio non è solo la recessione, ma la cristallizzazione di un modello chiuso, polarizzato, dipendente dalla guerra e incapace di generare innovazione sostenibile. Una minaccia ben più grave della semplice frenata del PIL.