di Giuseppe Gagliano –
Nel silenzio quasi totale dei media occidentali, il Sahel si sta trasformando nel più vasto teatro di guerra del pianeta. I gruppi jihadisti affiliati ad al-Qaeda e allo Stato Islamico operano ormai in un’area che copre oltre un milione di chilometri quadrati, il doppio della Spagna, e hanno causato almeno 77mila morti negli ultimi sei anni. Le milizie di Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM) e dello Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS) non sono più movimenti locali, ma eserciti irregolari che controllano territori, impongono tasse, amministrano giustizia e sostituiscono lo Stato.
La crisi non nasce dal nulla. Dopo i colpi di Stato in Mali e Burkina Faso, tra il 2020 e il 2022, le giunte militari avevano promesso di ristabilire l’ordine e sconfiggere il terrorismo. Oggi, però, la realtà è opposta: i confini si sono disintegrati e i governi sopravvivono solo nelle capitali. A Macina, nel Mali centrale, i jihadisti hanno eliminato ogni simbolo dello Stato: niente più certificati di nascita o di matrimonio, nessun funzionario pubblico, nessuna scuola. A nord e a est del Burkina Faso, città come Arbinda o Solhan sono isolate da mesi, in preda alla fame e all’assedio.
L’espansione delle milizie jihadiste si nutre del vuoto istituzionale, ma anche delle tensioni etniche e della povertà estrema. Le campagne di reclutamento si rivolgono alle comunità emarginate, sfruttando le rivalità locali tra pastori e contadini. La propaganda di JNIM, come ha denunciato l’ONU, si presenta come “difesa dei popoli dimenticati”, denunciando i massacri perpetrati dagli eserciti nazionali e dai loro ausiliari.
Le statistiche dell’organizzazione ACLED sono impietose: gli attacchi sono passati da 1.900 nel 2019 a oltre 5.500 nel 2024, e già 3.800 nei primi dieci mesi del 2025. Ogni tentativo di risposta militare si è rivelato un fallimento. L’intervento francese, iniziato nel 2013 con l’operazione Serval e proseguito con Barkhane, ha lasciato una scia di diffidenza verso l’Occidente e ha alimentato il risentimento anti-coloniale. L’uscita di Parigi e l’arrivo di Mosca, con mercenari russi, ora sotto la sigla “Africa Corps”, hanno cambiato bandiera ma non il risultato: più morti, meno sicurezza, più sfiducia.
La militarizzazione della regione ha paradossalmente rafforzato i jihadisti, che hanno trasformato il conflitto in una guerra di logoramento contro eserciti impreparati e stremati. La mancanza di coordinamento tra Mali, Burkina Faso e Niger, unita al crollo dei sistemi economici locali, ha reso impossibile qualunque strategia comune.
Il Sahel è una regione condannata dal clima e dall’economia. La desertificazione avanza, le rotte commerciali sono interrotte, e oltre quattro milioni di persone risultano sfollate. I jihadisti ne approfittano per imporre la loro “tassa islamica”, controllare il traffico di bestiame, i rapimenti e il contrabbando di carburante. In alcune aree, la loro presenza garantisce persino una forma di ordine e sicurezza più prevedibile di quella degli Stati ufficiali, che spesso intervengono con brutalità. È il paradosso del caos: l’autorità armata diventa amministrazione.
Geopoliticamente, il Sahel è oggi il laboratorio di un nuovo equilibrio. Gli Stati Uniti, ridotti al ruolo di osservatori, tentano di mantenere basi e droni in Niger, mentre la Russia estende la sua influenza politica e militare. La Cina, dal canto suo, preferisce la via economica: infrastrutture, miniere e progetti energetici che legano le élite locali a Pechino più di quanto non faccia la diplomazia occidentale.
In mezzo, le popolazioni vivono una guerra senza fronti e senza fine.
Il jihadismo nel Sahel non è più un sintomo, ma un sistema. È la fusione fra miseria, vuoto istituzionale e sfruttamento geopolitico. Una guerra “a bassa intensità” solo per chi la guarda da lontano, ma che di fatto sta ridisegnando la geografia del potere in Africa occidentale.












