di Giuseppe Gagliano –
Nel cuore dei Balcani la Serbia si muove sul filo del rasoio. Apparentemente stabile sotto la guida granitica di Aleksandar Vučić, il Paese è in realtà attraversato da un terremoto sociale, politico e geopolitico che mette in discussione gli equilibri regionali, la direzione europea e perfino la tenuta dello Stato. Mentre migliaia di cittadini scendono in piazza contro la corruzione e l’autoritarismo, il governo rilancia con un movimento di massa filo-governativo. A fare da sfondo, una partita internazionale a tre, Russia, Cina, Stati Uniti, dove l’Europa, ancora una volta, sembra spettatrice più che protagonista.
Le mobilitazioni scoppiate a novembre 2024, dopo il crollo di una pensilina a Novi Sad che ha causato 16 morti, hanno assunto rapidamente la forma di una protesta strutturale. Gli studenti, nuovo baricentro dell’opposizione, accusano il governo di Vučić di negligenza sistemica, di collusione affaristica, di soffocamento del dissenso. Le piazze si riempiono, anche fuori Belgrado, e il governo risponde con una mossa tanto audace quanto rivelatrice: la nomina a premier di Đuro Macut, un endocrinologo senza alcuna esperienza politica. Un tecnocrate neutro per garantire continuità formale e placare le pressioni interne ed esterne. Ma la scelta ha il sapore della debolezza.
Il 12 aprile Belgrado ha visto due piazze contrapposte: da una parte i sostenitori del “Movimento per il Popolo e lo Stato”, lanciato da Vučić come risposta muscolare alle accuse; dall’altra, le folle che chiedono libertà, trasparenza e dignità istituzionale. In mezzo, una società polarizzata e un governo sempre più dipendente da strategie di contenimento, più che di visione.
Ma il nodo serbo è soprattutto internazionale. Vučić coltiva una doppia fedeltà: aspirazione europea e complicità russa. Mentre Bruxelles chiede riforme e apertura sul Kosovo, Belgrado non solo rifiuta di imporre sanzioni a Mosca, ma ammette apertamente il sostegno dell’intelligence russa nella gestione delle proteste interne. È il segno di una dipendenza strategica che non è più solo militare o energetica, ma politica.
Il 9 maggio la possibile partecipazione di rappresentanti serbi alle celebrazioni russe della Vittoria rischia di essere un punto di rottura con l’Unione Europea. Kaja Kallas, che visiterà Belgrado a maggio, ha già espresso forte irritazione. La sua missione sarà quella di testare la reale volontà serba di allinearsi a Bruxelles o continuare a orbitare tra Est e Ovest. Ma intanto, la Serbia firma intese immobiliari con Jared Kushner e accoglie con discrezione la nomina di Mark Brnovich come ambasciatore USA: un corteggiamento multiplo che nasconde una strategia opportunistica.
Il dialogo con il Kosovo è fermo. Accuse reciproche, provocazioni ai confini, denunce di violazioni dei diritti delle minoranze. Per l’UE, la normalizzazione è condizione imprescindibile per l’adesione. Per Vučić, è una moneta di scambio da usare in chiave interna. Niente fa guadagnare più consenso tra i nazionalisti serbi quanto la difesa della “Serbia storica”. Ed è su questo che il governo gioca, mentre accusa l’Occidente di ipocrisia.
Sul piano economico la Serbia attira ancora investimenti, specialmente nei settori IT, automobilistico e immobiliare. Ma il meccanismo è fragile. Le sanzioni americane contro la NIS, controllata da Gazprom, minacciano l’autonomia energetica. E l’instabilità politica pesa sulla fiducia degli investitori. La crescita c’è, ma è a credito di una stabilità che vacilla ogni giorno.
Kaja Kallas arriverà in un Paese lacerato. La sua missione diplomatica avrà poco margine d’azione se non sarà accompagnata da una visione politica chiara: Bruxelles deve decidere se limitarsi a monitorare o a incidere. La biciclettata degli studenti verso Strasburgo è un gesto simbolico, ma potente: una generazione serba guarda all’Europa, mentre la classe dirigente flirta con il Cremlino. Tocca all’UE scegliere se restare ferma o tendere una mano vera, fatta di impegni e non di retorica.
La Serbia è oggi un laboratorio di instabilità controllata: abbastanza solida da non crollare, ma troppo incerta per evolversi. Vučić gioca su più tavoli, ma le carte iniziano a sfuggirgli di mano. Le piazze si riempiono, l’opposizione cresce, i partner internazionali si fanno impazienti.
Il rischio? Che a forza di non scegliere, la Serbia finisca per essere scelta dagli altri. E che l’Europa, ancora una volta, arrivi tardi. Come spesso è accaduto nei Balcani.