Siria. Israele bombarda comunque, a prescindere da chi governi

di Giuseppe Gagliano

Con il raid aereo del 2 gennaio contro le installazioni militari nella zona di al-Safira, a est di Aleppo, Israele ha aperto un nuovo capitolo nella lunga storia di conflitto con la Siria. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno colpito con precisione fabbriche militari, centri di ricerca e sistemi radar, portando alla distruzione di infrastrutture chiave per il potenziale bellico siriano. Il messaggio è chiaro: Israele intende mantenere il proprio dominio strategico nella regione, indipendentemente dagli equilibri politici interni siriani e dalle reazioni internazionali. Ma quali sono le implicazioni di questa intensificazione delle operazioni?
Il contesto regionale ha subito un cambiamento significativo con la caduta del regime di Bashar al-Assad, avvenuta l’8 dicembre 2024. L’uscita di scena del leader siriano ha creato un vuoto politico e militare che Israele sta cercando di sfruttare. Il nuovo leader siriano, Ahmed al-Sharaa, un ex comandante del gruppo ribelle Hayat Tahrir al-Sham (HTS), ha condannato le incursioni israeliane, dichiarando che l’Iran non è più presente in Siria e che le operazioni di Tel Aviv sono ormai ingiustificate. Tuttavia Israele sembra non condividere questa visione.
Dal punto di vista israeliano la presenza di armi strategiche in Siria rappresenta una minaccia esistenziale, indipendentemente dal fatto che siano obsolete o non supportate da operatori qualificati. Il ministro della Difesa Israel Katz ha affermato che l’obiettivo è distruggere ogni residuo del potenziale militare siriano, dai missili terra-aria alle munizioni a lungo raggio. Questo approccio è coerente con la dottrina di sicurezza israeliana: prevenire la formazione di qualsiasi minaccia, anche potenziale, alla propria sicurezza.
La Siria, devastata da oltre un decennio di guerra civile e ora priva del sostegno diretto dell’Iran, si trova in una posizione di estrema vulnerabilità. Le infrastrutture militari colpite da Israele rappresentavano uno degli ultimi baluardi della sovranità siriana. L’assenza di vittime confermata dai media siriani dimostra che l’obiettivo principale di Israele non è l’annientamento fisico del nemico, ma la distruzione del suo potenziale strategico.
Il nuovo governo di Ahmed al-Sharaa, già in difficoltà nel consolidare il controllo sul Paese, rischia di perdere ulteriormente credibilità agli occhi della popolazione. La narrativa secondo cui la Siria sarebbe ormai libera da influenze straniere e pronta a riprendersi non regge di fronte a una campagna militare israeliana che sembra non trovare ostacoli.
Israele, forte del supporto degli Stati Uniti e di una posizione di supremazia militare nella regione, sta portando avanti una strategia di pressione sistematica. Tuttavia, l’intensificazione delle operazioni comporta rischi significativi. La Siria potrebbe reagire attraverso attacchi sporadici o sostenendo gruppi armati ostili a Israele, come Hezbollah in Libano. Inoltre, l’assenza di una minaccia iraniana diretta potrebbe spingere altri attori internazionali, come la Russia, a intervenire per difendere i propri interessi in Siria.
Il conflitto tra Israele e Siria, più che una questione bilaterale, riflette le dinamiche complesse di un Medio Oriente frammentato. La caduta di Assad, salutata da molti come la fine di un’era, ha in realtà aperto nuove ferite, trasformando la Siria in un campo di battaglia per le potenze regionali e internazionali. Israele dal canto suo continua a perseguire una politica di autodifesa proattiva, senza preoccuparsi delle critiche esterne.
In questo contesto, il raid di al-Safira non è solo un’operazione militare, ma un simbolo della fragilità dell’ordine regionale. Finché i conflitti locali saranno utilizzati come strumenti per le rivalità geopolitiche, il Medio Oriente continuerà a essere ostaggio di violenza e instabilità.