Siria. La nuova Costituzione e la vecchia violenza

di Giuseppe Gagliano

Il nuovo presidente siriano Ahmed al-Sharaa ha firmato nei giorni scorsi una dichiarazione costituzionale temporanea che, nelle intenzioni ufficiali, dovrebbe segnare l’inizio di una transizione verso una Siria più democratica e inclusiva. Un documento che parla di separazione dei poteri, giustizia transitoria, diritti civili e libertà di espressione. Un proclama che sulla carta suona come l’inizio di una nuova era per il Paese devastato da quattordici anni di guerra civile.
Ma la realtà, come troppo spesso accade in Medio Oriente, è un’altra. Mentre al-Sharaa firmava il suo testo, mentre dichiarava di voler costruire una Siria “giusta e misericordiosa”, nelle strade del Paese si consumavano massacri che smentiscono ogni pretesa di cambiamento.
La dichiarazione costituzionale parla di diritti delle donne, libertà di stampa, indipendenza della magistratura. Tutto bellissimo, almeno nelle intenzioni. Ma basta guardare alla cronaca degli ultimi giorni per rendersi conto della totale assenza di coerenza tra la teoria e la pratica.
Solo una settimana fa circa mille civili alawiti, la minoranza religiosa a cui apparteneva Bashar al-Assad, sono stati uccisi barbaramente nella Siria occidentale dalle nuove forze di sicurezza fedeli ad al-Sharaa. Un atto di vendetta dopo l’imboscata letale di alcuni uomini armati fedeli all’ex presidente.
Non si tratta di un episodio isolato. Dal momento della presa di Damasco da parte delle forze di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), gruppi armati islamisti hanno imposto la loro legge nelle aree che controllano, con arresti arbitrari, sparizioni forzate e rappresaglie contro chiunque sia sospettato di aver avuto legami con il precedente regime.
Eppure la stessa Costituzione firmata dal nuovo presidente proibisce la “glorificazione del regime di al-Assad”, condanna i suoi crimini e promette giustizia per le vittime del passato. Ma chi garantisce giustizia per le vittime del presente?
La Siria che emerge dalla caduta di al-Assad non è una democrazia, né una società pluralista. È un Paese ancora spezzato, in cui il potere reale non sta nelle mani del governo transitorio, ma nelle fazioni armate che hanno vinto la guerra.
Le forze di Hayat Tahrir al-Sham, nate da una costola di al-Qaeda, sono ancora la colonna vertebrale del nuovo assetto siriano. Il gruppo, che fino a pochi mesi fa bombardava Damasco e combatteva le forze lealiste nella provincia di Idlib, oggi detta legge nei ministeri, nei tribunali e nelle forze di sicurezza.
Come può una Siria dominata da un gruppo jihadista conciliare le sue ambizioni democratiche con una costituzione che cita la Sharia come “fonte principale della legislazione”? Il testo costituzionale prevede un futuro basato sullo Stato di diritto, ma contemporaneamente impone vincoli islamici alla legislazione e al potere esecutivo, aprendo la strada a una giurisprudenza che rischia di emarginare chiunque non si conformi a questa visione.
Non è un caso che i curdi della Siria settentrionale abbiano già bocciato la dichiarazione costituzionale, definendola incompatibile con il mosaico etnico e culturale del Paese. E non è un caso che l’ONU si sia limitata a un commento prudente, senza sbilanciarsi troppo sulle prospettive reali della transizione.
La Siria ha già visto transizioni fallite. Ha già vissuto momenti in cui il sogno di un cambiamento veniva soffocato dalla realtà di un potere che non cambia mai. La nuova dichiarazione costituzionale, con le sue promesse altisonanti, sembra solo l’ennesimo capitolo di questa lunga illusione.
Finché le città siriane saranno governate dai signori della guerra, finché le esecuzioni di massa saranno tollerate nel silenzio generale, finché il nuovo regime si comporterà come quello vecchio, non ci sarà nessuna transizione, solo un’altra dittatura con una faccia diversa.
Intanto al-Sharaa ha promesso di punire i colpevoli delle stragi di settimana scorsa “anche fossero miei parenti”, e già sono stati effettuati arresti.