Siria. Nuove da Damasco: la Turchia e la Russia vincono il piatto

di Cesare Scotoni

Il 28 settembre 2015, a 4 anni e mezzo dall’avvio della Primavera araba del 2011, Vladimir Putin e Barack Obama si incontravano alle Nazioni Unite. Per capire come uscirne. In un quadro regionale. E la Russia di lì a poche ore cambiava il profilo della propria presenza in Siria, fino allora limitata al mantenere fruibile la base navale di Tartus. Mentre dal Caspio partivano due salve di missili da crociera che, sorvolando l’Iran, colpivano con precisione le basi jiahdiste, fino allora rifornite dalla Turchia con armi della NATO, e mostravano ad Israele la possibilità di tutelare la costa del Mediterraneo senza muovere dal Mar Caspio o dal Mar Nero, ovvero senza passare il Bosforo. E Putin, parlando di Crimea e Donbass, spiegava al mondo che ovunque si parlasse il russo lì fosse la Russia, e all’Iran faceva invece notare che la maggioranza della popolazione di Israele parlava il russo. Poi spediva volontari di religione islamica dal Caucaso a supportare Bashar al-Assad su Aleppo e a interporsi tra i curdi (comunisti) e le truppe turche e della NATO.
Gli USA intanto spostavano le due portaerei che avevano nel Mediterraneo verno l’Oceano Indiano per avvicinarle al quadrante di Taiwan in un’ottica di contenimento delle ambizioni cinesi. L’aereo russo abbattuto dai turchi sulla Siria, la mancata reazione russa, la solidarietà manifestata ad un Erdogan la cui lira balbettava sotto l’attacco del dollaro nel momento in cui gli F-16 canadesi si levavano dalla base NATO di Incirlik per bombardare l’hotel in cui risiedeva la notte del 15 luglio 2016, nonché la scelta turca di acquistare gli S-400, segnarono l’avvio di quel percorso che vedeva Turchia e Russia affrontare in un’unica prospettiva la vicenda siriana e quella ucraina.
Lo stesso accordo di aprile 2022 sul Donbass che si raggiunse in Turchia prima che i servizi “ucraini” uccidessero il proprio capodelegazione e il governo di Kiev vietasse per legge di parlare di Pace con la Russia, segnavano l’avvio un percorso tra potenze “regionali” focalizzato sull’evidente “cambio di paradigma” determinatosi in Medio Oriente con la stipula degli Accordi di Abramo. Mentre l’amministrazione Biden, limitata da più di un fattore e comunque protesa a difesa del consolidato (e forse impreparata a far fronte a quel cambio), palesemente soffriva della maggior presenza russa in Egitto e Libia e boicottava gli accordi sul Donbass raggiunti in Turchia, e mentre la Francia perdeva terreno nell’area definita dagli accordi Sykes – Picot del 1916 e vedeva con difficoltà l’evolversi della situazione in Africa Occidentale e Sahel (coinvolgendo anche l’Italia a supporto della propria eredità coloniale), il mondo scopriva ufficialmente la debolezza della leadership della potenza più armata del pianeta e, salvo pochi illusi, tutti scommettevano su un cambio di quella leadership e sull’impossibilità di un’Unione Europea a trazione franco-tedesca di rappresentare anche solo marginalmente un interlocutore credibile, dopo che gli accordi di Minsk approvati dall’ONU erano stati traditi da quei garanti.
Tutti però oggi sembrano convinti, su tutti i fronti, che la Cina sia una “protagonista opportunistica”, e in quanto tale da “tenere fuori” da quella ricerca di un equilibrio diverso da quello stabilito a Yalta e che appare definitivamente superato.
Come italiani abbiamo presente come l’Inghilterra reagì al tentativo di Pratica di Mare e come Francia e Germania si comportarono con il nostro Paese, che era il terzo fondatore del Progetto di Nuova Europa nato nel Secondo dopoguerra, nella vicenda libica. Per cui non possiamo non ammirare la capacità di Erdogan, la cui Turchia è parte importante dell’Alleanza Atlantica, di riportare la vicenda ucraina all’aprile del 2022 e nel contempo si definire con la Russia il superamento degli accordi di Sykes – Picot, nel momento in cui USA e UK indeboliscono la NATO e l’Unione Europea in Georgia, Romania e Moldavia, e Francia e Germania balbettano per le rispettive congiunture politiche ed economiche proprio dopo aver disinvoltamente demolito la credibilità internazionale di quella Unione Europea che rifiutò l’adesione della Turchia. Così, in attesa di Trump e scommettendo su di lui e sul concretizzarsi degli Accordi di Abramo, due autocrati che fan da sempre leva su popolo, tradizione, storia e religione han dato una lezione a chi dell’ambiguità ha fatto dogma. E Damasco è stata un assaggio
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