di Giuseppe Gagliano –
L’incontro a Damasco tra il ministro degli Esteri siriano Asaad al-Shibani, il giordano Ayman Safadi e l’inviato speciale USA Tom Barrack rappresenta un passaggio decisivo per il futuro della Siria meridionale. La provincia di Suweyda, cuore della comunità drusa, è diventata negli ultimi mesi epicentro di violenze che hanno minato la fragile legittimità del governo guidato da Ahmed al-Sharaa, insediatosi dopo la caduta di Bashar al-Assad. Con oltre 1.000 vittime e 190.000 sfollati, la crisi di Suweyda è un banco di prova: stabilizzarla significa testare la capacità dello Stato di integrare le minoranze e di governare un Paese ancora lacerato.
La roadmap prevede passi concreti: ritiro degli armamenti pesanti, protezione delle vie di comunicazione, riconciliazione comunitaria. Ma il nodo centrale resta il rapporto con Israele. Tel Aviv, dopo aver occupato nove postazioni nel Sud siriano a dicembre, chiede una zona demilitarizzata. Questo ridisegna il confine: un potenziale accordo di sicurezza tra Siria e Israele significherebbe una parziale normalizzazione delle relazioni, ma anche la rinuncia di Damasco a proiettare forza nella sua stessa periferia. Per il governo Sharaa, è una scelta difficile: garantire la sicurezza delle comunità druse e il ritorno dei profughi senza apparire subordinato alle richieste israeliane.
La presenza di Amman e Washington segnala una convergenza di interessi regionali. Per la Giordania, il caos a Suweyda significa flussi di rifugiati e rischio di infiltrazioni jihadiste lungo il confine. Per gli USA, l’obiettivo è impedire che la Siria meridionale diventi una nuova piattaforma per milizie filo-iraniane. Il “meccanismo congiunto” siriano-giordano-americano potrebbe diventare il primo esperimento di governance multilaterale in Siria dal 2011, ma rischia di esporre il governo Sharaa alle accuse di ingerenza esterna e di compromettere la narrativa di piena sovranità riconquistata dopo la guerra civile.
La roadmap promette risarcimenti, ricostruzione e il ripristino dei servizi di base. Ma la realtà è che le risorse di Damasco sono scarse. La ricostruzione di case e infrastrutture, la riapertura di scuole e ospedali, il sostegno agli agricoltori e alle piccole imprese locali richiedono capitali che solo partner esterni possono garantire. Qui entrano in gioco le Nazioni Unite e, indirettamente, i Paesi del Golfo, che potrebbero finanziare progetti di ricostruzione in cambio di garanzie di sicurezza e di un freno all’influenza iraniana nella regione.
La crisi di Suweyda non è solo militare: è politica e identitaria. I drusi temono l’islamizzazione delle istituzioni e la marginalizzazione, i curdi osservano con sospetto il rallentamento dell’accordo di marzo che prevedeva il riconoscimento dei loro diritti e l’integrazione delle SDF nello Stato. Una roadmap che ignori la questione del pluralismo rischia di produrre stabilità temporanea ma non duratura. La sfida di Sharaa è trasformare il cessate il fuoco in un progetto inclusivo che dia voce a tutte le comunità, evitando il ritorno del settarismo che ha alimentato la guerra civile.
La situazione a Suweyda è un microcosmo del nuovo ordine siriano: un equilibrio tra forze interne, pressioni esterne e memorie di un conflitto ancora vivo. Se la roadmap sarà implementata, potrà diventare un modello per la pacificazione del resto del Paese. Ma il margine di errore è stretto: un fallimento significherebbe non solo una nuova esplosione di violenza, ma anche il collasso della fragile credibilità internazionale del governo Sharaa. La partita si gioca ora, e non riguarda solo Suweyda, ma la possibilità di una Siria capace di rinascere come Stato sovrano, pluralista e funzionale.












