Siria. Trump rompe l’asse con Israele: normalizzazione senza consultazioni

di Giuseppe Gagliano

Di fronte ai nuovi equilibri mediorientali, l’ex presidente americano abbandona la diplomazia tradizionale e riconosce il governo siriano di al-Sharaa. Tel Aviv, spiazzata, tace. Ma lo strappo è più profondo di quanto sembri. A bordo dell’Air Force One, mentre lascia Abu Dhabi al termine di una visita strategica di quattro giorni, Donald Trump lancia una dichiarazione che ha il peso di una frattura storica: gli Stati Uniti riconoscono il governo provvisorio siriano di Ahmed al-Sharaa senza consultare Israele. Non un errore diplomatico. Non un incidente. Ma una decisione calcolata, confermata dallo stesso Trump ai giornalisti: «Non li ho interpellati. Era la cosa giusta da fare».
Il gesto assume un significato dirompente non solo per la forma — l’unilateralità — ma per il contesto: pochi giorni prima, Trump aveva annunciato la revoca delle sanzioni alla Siria, preludio a un incontro con al-Sharaa che rappresenta il primo vertice bilaterale USA-Siria dopo un quarto di secolo. E il vertice non è stato una passerella solitaria: alla tavola rotonda si sono aggiunti attori chiave del Golfo, dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman al presidente turco Erdogan (in collegamento). Una nuova alleanza a geometria variabile prende forma.
Per Israele, la decisione rappresenta una vera e propria marginalizzazione. Come sottolinea El País, l’assenza di Tel Aviv dall’agenda del viaggio di Trump è un segnale chiaro: le priorità dell’ex presidente non sono più la sicurezza regionale nel senso tradizionale, ma la creazione di un’architettura transazionale fondata su investimenti, energia, apertura verso l’Iran e alleanze variabili. L’incontro con al-Sharaa è solo l’ultimo anello di una catena che include l’interruzione dei raid USA sugli Houthi nello Yemen, il dialogo con Hamas per la liberazione dell’ostaggio Edan Alexander (senza consultare Israele), e la promozione di un piano di normalizzazione con i Paesi del Golfo.
Tel Aviv incassa in silenzio. Netanyahu ringrazia per la liberazione dell’ostaggio, ma tace su tutto il resto. Un silenzio eloquente. Più esplicita è la frustrazione che trapela dal Ministero degli Esteri israeliano, che si rifugia in formule vuote come “dialogo intimo diretto” per giustificare l’assenza di coordinamento.
Il sondaggio pubblicato da Ipanel evidenzia una frattura profonda: quasi il 70% degli israeliani accoglierebbe un’iniziativa americana che porti alla fine della guerra a Gaza, alla restituzione degli ostaggi, alla normalizzazione con l’Arabia Saudita e alla formazione di un’alleanza anti-iraniana. Solo il 10% è contrario. Ma Netanyahu è stretto tra falchi religiosi e nazionalisti, decisi a continuare la guerra a Gaza fino alla “sconfitta totale di Hamas”, e un’opinione pubblica stanca dopo 18 mesi di conflitto.
La vera rottura però è sistemica. Jonathan Panikoff, ex vicedirettore dell’intelligence nazionale USA per il Medio Oriente, oggi all’Atlantic Council, lo dice chiaramente: la relazione privilegiata tra USA e Israele non è più automatica. Trump ha un’agenda transazionale, mercantile, che privilegia il ritorno economico immediato rispetto alla continuità strategica. Se Israele non rientra in quella logica, verrà scavalcato. Punto.
È un cambio di paradigma: gli USA restano sovrani, come afferma con tono secco un portavoce del ministero israeliano, ma è la prima volta da decenni che questa sovranità viene esercitata a scapito dell’interesse percepito dallo Stato ebraico. E non è detto che questa sia una parentesi. Piuttosto, potrebbe essere l’inizio di un nuovo corso.