di Giuseppe Gagliano –
È una dichiarazione che ha il sapore del terremoto geopolitico e che arriva nel momento forse più delicato per l’Alleanza Atlantica: Robert Fico, primo ministro della Slovacchia, ha annunciato pubblicamente l’intenzione di rimettere in discussione l’adesione del suo Paese alla NATO. Lo ha fatto con una mossa che va ben oltre la retorica populista: un videomessaggio diretto ai cittadini in cui ha evocato la possibilità di adottare uno status di neutralità, affermando che tale scelta “converrebbe alla Slovacchia”. Una provocazione? Un tentativo di sviare l’opinione pubblica? Oppure l’inizio di una nuova traiettoria strategica?
Fico non ha specificato i dettagli di un eventuale referendum popolare, ma la sua uscita giunge mentre a Bruxelles si alzano le pressioni per portare i bilanci della difesa al 5% del PIL, secondo la linea intransigente promossa da Donald Trump in vista del prossimo vertice NATO all’Aia. Per Fico, questa corsa al riarmo è “assurda” e “insostenibile” per un Paese come la Slovacchia: meno di sei milioni di abitanti, un’economia fragile, e già ora con un budget militare risicato. Definire la NATO un “club di golf elitista e costoso” è stata la sua maniera di liquidare l’imposizione di nuovi oneri strategici da parte di Washington.
Il premier slovacco, tornato al potere nel 2023, ha rapidamente riassestato la politica estera del Paese su binari divergenti da quelli occidentali: ha sospeso gli aiuti militari a Kiev, ha invocato colloqui diretti con Mosca e ha moltiplicato i segnali di intesa con Vladimir Putin. Ma questa è la prima volta che osa formalizzare un’ipotesi di exit strategy dalla NATO, un’alleanza che la Slovacchia ha abbracciato dal 2004. Un gesto che segna un punto di rottura simbolico, potenzialmente destabilizzante per l’equilibrio strategico dell’Europa centrale.
Le reazioni interne non si sono fatte attendere. L’opposizione ha gridato allo scandalo, bollando la mossa come un “atto irresponsabile”. Anche il presidente della Repubblica Peter Pellegrini, in teoria un alleato politico di Fico, ha preso le distanze, definendo l’idea della neutralità una “diversione pericolosa” e “senza sbocco”. Il capo dello Stato ha inoltre ricordato che i costi della neutralità, in termini di sicurezza e deterrenza, supererebbero ampiamente quelli legati alla permanenza nell’Alleanza.
In termini militari, la Slovacchia rappresenta una pedina modesta nello scacchiere NATO: dispone di un esercito ridotto, un arsenale limitato e una geografia che la rende più vulnerabile che determinante. Ma è proprio la sua posizione, incastonata tra Polonia, Ungheria, Austria e Ucraina, a renderla strategicamente rilevante. Un’uscita, anche solo paventata, incrinerebbe la credibilità collettiva dell’Alleanza in una fase già minata dalle tensioni interne, dal ritorno del trumpismo e dalla divergenza delle opinioni sulla guerra russo-ucraina.
Sul piano simbolico, poi, la posizione di Fico rivela un sentimento sotterraneo che non riguarda solo Bratislava. In molte capitali dell’Est Europa, da Budapest a Belgrado, fino a Praga, cresce l’irritazione verso un’architettura strategica percepita come troppo subordinata agli interessi americani. La Slovacchia, con la sua vocazione storica a fungere da cerniera tra Est e Ovest, si fa così portavoce di un malessere profondo che la crisi ucraina ha solo acutizzato.
In definitiva, le parole di Fico non sono solo uno sberleffo alla NATO: sono la spia di un nuovo riposizionamento dell’Europa centro-orientale. Se saranno seguite dai fatti, è ancora presto per dirlo. Ma il semplice fatto che vengano pronunciate, e con questa solennità, segna una crepa profonda nell’architettura post-1989 dell’Occidente.