di Giuseppe Gagliano –
Nel cuore dell’Oceano Indiano la geopolitica si fa concreta, fatta di raffinerie, porti, gasdotti e satelliti. Il primo ministro indiano Narendra Modi, con la sua recente visita a Colombo, ha segnato una tappa strategica fondamentale nella silenziosa ma spietata contesa tra India e Cina per il controllo del quadrante marittimo più sensibile dell’Asia. Un quadrante che non è più semplice spazio geografico, ma crocevia di ambizioni imperiali del XXI secolo.
Modi è stato il primo capo di Stato a varcare la soglia del nuovo presidente dello Sri Lanka, Anura Kumara Dissanayake, eletto a settembre. Un gesto di diplomazia simbolica ma anche pratica: Nuova Delhi si propone come il partner di riferimento di Colombo, in un momento in cui la piccola isola-stato sta tentando di uscire dalle sabbie mobili del default finanziario, dichiarato nel maggio 2022. L’India, non a caso, è già corsa in aiuto: 4 miliardi di dollari in prestiti d’emergenza e, ora, l’impegno a ristrutturare 1,36 miliardi di dollari di debiti.
Ma non si tratta solo di assistenza. È una partita strategica, giocata su più tavoli: energia, difesa, commercio, digitalizzazione. Modi vuole legare il futuro dello Sri Lanka a quello dell’India, rendendolo un tassello di quel progetto ambizioso lanciato nel 2015 sotto la sigla SAGAR (Security and Growth for All in the Region), l’architrave della politica marittima di Nuova Delhi. L’obiettivo: un Oceano Indiano libero, aperto e soprattutto sicuro da ingerenze esterne. Tradotto: un Oceano Indiano senza Pechino.
Il terreno di scontro più immediato è quello energetico. A Trincomalee, sulla costa orientale dello Sri Lanka, l’India punta a costruire una raffineria in joint venture. Una risposta alla presenza ingombrante di Sinopec, la compagnia statale cinese, che a gennaio ha firmato un accordo da 3,7 miliardi per una raffineria a Hambantota, il porto già “prestato” per 99 anni a Pechino nel 2017, dopo che Colombo non riuscì a ripagare i debiti contratti proprio con la Cina. La “trappola del debito” cinese si materializzava. E ora l’India vuole trasformare Trincomalee nel suo bastione energetico regionale.
Il confronto prosegue anche sul fronte militare. L’accordo di cooperazione in materia di difesa, di cui si discute da mesi, dovrebbe includere fornitura di armi, addestramento, esercitazioni congiunte e sorveglianza marittima. È un salto di qualità notevole: Colombo è sempre stata prudente nell’affidarsi militarmente a partner esterni, ma la crescente presenza cinese (e la sfiducia americana verso la reale neutralità dello Sri Lanka) stanno cambiando la partita. L’India si candida a essere il garante della sicurezza marittima nella regione, ben oltre le acque territoriali.
Tuttavia il gioco è più complicato di quanto appaia. Lo Sri Lanka, come molti piccoli Stati tra due grandi potenze, cerca di trarre vantaggio da entrambe: investimenti cinesi, sicurezza indiana. La visita di Dissanayake a Pechino, a gennaio, ha prodotto 15 intese bilaterali, inclusa l’integrazione della Belt and Road con il piano economico digitale dello Sri Lanka. Colombo resta quindi in bilico, consapevole di dover evitare l’eccessiva dipendenza da una sola sponda.
L’India in questo contesto deve fare di più. Non solo aiutare in tempi di crisi, ma offrire un progetto coerente e sostenibile. Non bastano le raffinerie e i prestiti, serve una visione economica, commerciale e culturale di lungo termine. Anche perché, mentre Nuova Delhi investe 2,25 miliardi di dollari complessivi nello Sri Lanka, Pechino gioca partite da miliardi in un colpo solo.
Come spesso accade in Asia meridionale, la politica internazionale passa per le infrastrutture. E i confini del potere non sono tracciati sulle mappe, ma sui tubi del gas, sui radar navali e sulle banchine dei porti. Modi lo ha capito. Ora resta da vedere se Colombo vorrà davvero legarsi a Nuova Delhi più di quanto lo sia già con Pechino. Per ora, la partita è aperta. Ma la posta in gioco è l’equilibrio dell’intero Oceano Indiano.