di Giuseppe Gagliano –
Il 19 maggio 2025, nel pieno di una guerra che ha già causato oltre 130mila morti e milioni di sfollati, Abdel Fattah al-Burhan, capo dell’esercito sudanese e leader dello Stato, ha firmato un decreto che nomina Kamil Idris, ex alto funzionario dell’ONU, come nuovo primo ministro. Una mossa che più che il segnale di un cambio di rotta appare come un tentativo disperato di ottenere legittimità internazionale nel mezzo di un conflitto che ha trasformato il Sudan in una terra dilaniata, frammentata e contesa.
Kamil Idris è un nome noto nei corridoi della diplomazia multilaterale. Ex direttore generale dell’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (OMPI), è stato un giurista di formazione con esperienza nelle missioni sudanesi all’ONU e ha avuto un passato da candidato presidenziale contro Omar al-Bashir. Ma oggi viene catapultato in un contesto in cui la legalità è un simulacro e il potere si misura in milizie, droni e città sventrate.
L’Unione Africana ha salutato la nomina come “un passo verso la governance inclusiva”, ma nel Paese il sangue continua a scorrere. Il conflitto tra le Forze armate regolari e le Rapid Support Forces (RSF) di Mohamed Hamdan Dagalo non conosce tregua: Khartum è stata teatro di battaglie decisive, Port Sudan è stata colpita da droni, e Omdurman ha risuonato di esplosioni mentre le truppe di al-Burhan lanciavano una nuova offensiva. Le RSF controllano il Darfur, ricevono – secondo Khartum – rifornimenti dagli Emirati Arabi Uniti tramite il Ciad, e hanno persino annunciato la formazione di un governo parallelo.
In questo scenario la nomina di Idris non basta a riscrivere il copione. È un gesto politico, un segnale per le cancellerie internazionali, forse una premessa per futuri negoziati, ma non cancella la realtà di un Paese che sopravvive tra blackout elettrici, ospedali al collasso e un esodo biblico di profughi. Né le promesse di inclusione – con la nomina di due donne al Consiglio sovrano – possono compensare il vuoto di istituzioni credibili.
La guerra in Sudan non è solo uno scontro tra generali. È una guerra di modelli, visioni, interferenze straniere. È il crollo, sotto le bombe, di ogni tentativo di transizione post-Bashir. E ora, nel vuoto istituzionale, la comunità internazionale deve decidere se trattare con chi impugna le armi o con chi, come Kamil Idris, cerca di ricostruire le parvenze di uno Stato. Sempre che ci sia ancora uno Stato da salvare.