Sudan. Sviluppi del conflitto: le attività russa e iraniana

di Lorenzo Lena

La guerra civile sudanese, iniziata come scontro interno al regime militare e allargatasi a probabili conseguenze internazionali, vede un numero di vittime stimate tra le 15mila e le 150mila. Le Nazioni Unite calcolano dieci milioni di sfollati, due milioni già oltreconfine. Al-Fashir, capitale del Nord Darfur, è assediata dalle Rapid Support Forces del generale Mohammed Dagalo, che controllano anche buona parte di Khartoum, mentre il governo di Abdel Fattah al-Burhan si è spostato a Port Sudan. I due fronti si equivalgono per numero di effettivi e controllo del territorio, una svolta non sembra imminente.
Il conflitto è derivato dalla fallita transizione a Omar al-Bashir dopo il 2019, un regime sostenuto dai militari e dalla componente religiosa integralista, la cui reputazione è crollata a causa del conflitto in Darfur (2003-2020), con circa mezzo milione di morti. Al-Bashir e altri funzionari sono ricercati dalla Corte dell’Aia per crimini contro l’umanità. Le proteste hanno però aperto la strada all’esercito, che ha formato il Consiglio Sovrano del Sudan con un nuovo primo ministro, Abdalla Hamdok, deposto nel 2021 dalla diarchia tra al-Burhan e Dagalo, che è crollata nel 2023.
La Russia, attiva nell’estrazione aurifera, ha operato principalmente tramite la PMC Wagner Group e la compagnia mineraria Meroe Gold Co. Ltd. La presenza del Wagner Group risale al 2017, con compiti di consulenza. Meroe Gold, di proprietà di Evgenij Prigozhin, ha avviato attività di contrabbando, mentre Ue e Usa la identificavano come una copertura di Wagner. La PMC, rinominata dopo la morte di Prigozhin in Africa Corps, ha mantenuto l’alleanza con le RSF, anche se al-Burhan si è poi avvicinato al Cremlino.
L’interesse per una presenza nel Mar Rosso ha portato a un accordo già nel 2019, poi messo in dubbio dai rivolgimenti politici. Nel 2021 i vertici sudanesi hanno ristretto i limiti della locazione vincolandola ai propri interessi nazionali, al punto che alcuni osservatori hanno sostenuto il coinvolgimento russo nel colpo di Stato che ha estromesso Hamdok, le cui politiche ostacolavano gli interessi di Mosca. Con il conflitto tra SAF e RSF, dopo un incontro tra al-Burhan e il viceministro Mikhail Bogdanov, l’ambasciatore sudanese a Mosca ha confermato che l’accordo per Port Sudan è riavviato e andrà a interessare anche le risorse minerarie del Sudan e forme di assistenza economica.
La presenza ucraina in Sudan, accertata da fine 2023, ha aperto a un coinvolgimento di Kiev lontano dal fronte europeo. L’esempio più clamoroso è la distruzione di una formazione del Wagner Group in Mali, con la morte anche di decine di soldati del governo di transizione di Assimi Goita, alleato di Mosca nel Sahel. Le autorità ucraine hanno confermato l’appoggiato ai miliziani tuareg. I vertici ucraini avrebbero optato per un logoramento globale, colpendo il legame economico e politico tra Mosca e Paesi africani e mediorientali. A settembre 2023 Volodymyr Zelenskiy e al-Burhan hanno discusso delle comuni sfide poste dai gruppi armati finanziati dalla Russia. Non è chiaro se, con il riavvicinamento tra Mosca e il Consiglio Sovrano di Transizione, l’allineamento con Kiev proseguirà.
Da inizio 2024 sono aumentati gli avvistamenti di armamenti iraniani impiegati dalle SAF, ma non si è potuta trovare conferma di una vendita diretta dall’Iran. A luglio al-Burhan ha accettato le credenziali del nuovo ambasciatore iraniano, dopo otto anni di assenza dovuti alla crisi diplomatica tra Iran e Arabia Saudita del 2016. Il riavvicinamento con Teheran, in un contesto di cooperazione globale tra Russia e Iran, pone rischi significativi. Il movimento islamista Kizan, storicamente vicino all’Iran, sostiene il governo di al-Burhan. Uno scenario che ricorda Libano, Iraq o Yemen, con gruppi armati in grado di controllare vaste porzioni di uno Stato fallito.
In questo caso la probabile presenza filoiraniana si realizza a ridosso del Mar Rosso, mentre già le coste yemenite sono occupate dai miliziani Houthi. Un doppio controllo che inciderebbe sulla sicurezza dei commerci e la stabilità regionale. Un Sudan legato all’Iran e alla Russia, prossimo a Israele, allo Yemen e al canale di Suez, avrebbe effetti dirompenti e sono già state segnalati transiti di miliziani diretti ai campi di addestramento in Medio Oriente, per essere incorporati nella nuova “Forza Qassem Soleimani”. L’Iran ha dimostrato di poter agire tramite l’alleanza con proxies locali, i quai trarrebbero evidente beneficio dal controllo delle installazioni costiere sudanesi.
Il ruolo degli Emirati Arabi Uniti, sponsor delle RSF, ha portato al-Burhan a obiettare alla partecipazione di Dubai alla conferenza di Ginevra. Fonti internazionali indicano il sostegno alle RSF tramite il confine con il Ciad, mentre Dubai parla di un supporto solo umanitario. Amnesty International elenca gli UAE tra i foraggiatori del conflitto in violazione dell’embargo, mentre è segnalato l’impiego di miliziani di Dagalo anche in Libia e Yemen. Una politica di potenza in contrasto con Arabia Saudita e Egitto, che sostiene il governo sudanese contro l’Etiopia per la questione della Grande Diga della Rinascita, ma che dimostra come interessi di attori locali possano convergere o divergere a seconda degli scenari.
L’intervento internazionale per ottenere anche solo un cessate-il-fuoco è insufficiente. Il recente vertice di Ginevra è partito con grandi difficoltà, data l’assenza di rappresentanti governativi. La conferenza umanitaria di Parigi in aprile ha garantito 2 miliardi di dollari in aiuti, ma rimane da stanziare quasi il 90%. Il Consiglio di sicurezza ha chiesto la cessazione delle ostilità, ma al momento non ci sono, né sono prevedibili, forze in grado di forzare i negoziati. L’attività dei singoli sostenitori delle parti in lotta degrada inoltre la capacità di usare la leva economica. Anche con un cessate-il-fuoco sarebbe inoltre necessario monitorare gli sviluppi interni del Paese per evitare che continui a essere un santuario per terrorismo e traffico di esseri umani.
Nonostante i ritardi, l’accordo raggiunto con Mosca prevede fino a quattro navi, anche nucleari, nel Mar Rosso. Queste altererebbero gli equilibri regionali, ma è improbabile che la Russia possa stanziare tali unità nel breve periodo data la situazione della sua flotta. Le perdite subite e la politica di passaggio degli Stretti turchi rendono irrilevante, in tal senso, la Flotta del Mar Nero; quelle del Baltico e del Nord non possono essere indebolite, mentre la NATO si rafforza con l’ingresso di Svezia e Finlandia. La Flotta del Pacifico dispone di maggiori potenzialità in un’area meno critica, ma rimane che la componente navale russa è per lo più obsoleta e inadatta a gestire una politica globale. Nemmeno la componente sottomarina potrebbe agire liberamente in un contesto come quello del mar Rosso. Come accennato, installazioni russe o iraniane a Port Sudan potrebbero invece acuire il conflitto portato dagli Houthi, accrescendo l’efficacia di tale offensiva asimmetrica contro il commercio internazionale e, forse ancor più pericoloso, contro il traffico dati passante lungo i cavi sottomarini. L’influenza che i regimi russo e iraniano saranno in grado di esercitare sul Sudan sfruttando la condizione prodottasi con la guerra civile, potrebbe risultare esponenzialmente più rilevante dell’effettiva presenza navale posta in essere. Questo comporta la necessità non solo di interrompere i combattimenti, ma di monitorare i successivi sviluppi politici accompagnandoli verso una stabilità che non possa essere manovrata da attori ostili.