Sudan. Una crisi senza fine: guerra, frammentazione e interessi internazionali

di Giuseppe Gagliano –

Il Sudan si conferma uno degli epicentri più drammatici del caos geopolitico africano. Una nazione attraversata da conflitti interni, sfollamenti di massa e interferenze internazionali, dove interessi economici e militari si intrecciano su un tessuto sociale ormai devastato. La mappa della situazione, con le sue zone di controllo, le direttrici di fuga dei rifugiati e le risorse contese, è il ritratto di un paese intrappolato in una crisi permanente.
Il Sudan è un paese diviso. Da un lato, ci sono le forze governative guidate da Abdel Fattah al-Burhan, sostenute da alleati come Egitto, Qatar e Turchia, che dispongono di un contingente stimato tra 150.000 e 300.000 uomini. Dall’altro, le Forze di Supporto Rapido (RSF), capeggiate da Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, supportate da Emirati Arabi Uniti e Russia, con circa 100.000 uomini.
A questi due grandi blocchi si aggiungono altri attori locali: il Movimento Popolare di Liberazione del Sudan-Nord (MPLS-N) e altre fazioni armate che controllano porzioni del territorio, come quelle nelle regioni del Darfur, del Sud Kordofan e del Nilo Blu. La frammentazione del potere rende impossibile qualsiasi processo di stabilizzazione, alimentando conflitti e sofferenze.
Il Sudan non è solo un campo di battaglia, ma anche un terreno di conquista economica. Le sue ricchezze naturali sono al centro degli interessi internazionali:
• Oro, principale fonte di esportazione del paese, di cui le RSF controllano buona parte attraverso miniere illegali.
• Petrolio e il relativo oleodotto che attraversa il paese.
• Posizione strategica lungo il Mar Rosso, con porti chiave come Port Sudan e Suakin, dove si intrecciano gli interessi di Russia (che punta a una base navale) e Turchia.

La Russia, già presente attraverso il gruppo Wagner, sta rafforzando la sua influenza sfruttando le divisioni interne al paese. Allo stesso tempo, gli Emirati Arabi Uniti sono impegnati in operazioni economiche e militari per consolidare il proprio peso regionale.
Il conflitto in Sudan ha generato una catastrofe umanitaria che non accenna a diminuire:
• 7 milioni di sfollati interni vagano senza prospettive all’interno del paese.
• 1,9 milioni di rifugiati sono fuggiti oltre confine, trovando riparo soprattutto in Egitto (450.000), Ciad (560.000) ed Eritrea (50.000).
• I campi profughi lungo i confini sono al collasso, mentre il flusso di nuovi rifugiati non si arresta.

In totale, la crisi ha colpito quasi 9 milioni di persone, lasciando dietro di sé un paese svuotato e un’intera regione destabilizzata. Particolarmente colpito è il Darfur, una regione già teatro di conflitti etnici e scontri armati che continuano a mietere vittime e a provocare esodi di massa.
Le aree di conflitto non si limitano alle battaglie tra eserciti regolari. Nel Sudan si sovrappongono diversi tipi di conflitti:
• Scontri tra pastori nomadi e agricoltori sedentari, soprattutto nelle regioni rurali.
• Tensioni separatiste nelle aree del Sud Kordofan e del Nilo Blu, dove i movimenti locali sfidano il governo centrale.
• Regioni contese, come Abyei, dove una missione ONU (FISNUA) tenta di gestire una situazione di stallo con il Sud Sudan.

La crisi sudanese è diventata un terreno di scontro tra potenze esterne. Russia, Turchia, Emirati Arabi Uniti e persino la Cina guardano al Sudan non solo per le sue risorse, ma anche per la sua posizione strategica. La presenza di basi navali lungo il Mar Rosso, le operazioni minerarie e il commercio di armi sono strumenti attraverso cui questi attori cercano di consolidare la loro influenza.
Il Sudan è l’esempio perfetto di come conflitti interni, risorse strategiche e interessi geopolitici possano trasformare un paese in un nodo di crisi globale. Senza un intervento internazionale coordinato, il rischio è quello di una destabilizzazione irreversibile, non solo per il Sudan, ma per l’intero Corno d’Africa. Tuttavia, con così tanti attori coinvolti e interessi in gioco, trovare una soluzione sembra sempre più lontano. La popolazione sudanese, intanto, continua a pagare il prezzo più alto.