Svezia e Finlandia nella NATO: Erdogan batte cassa con la PESCO

di Roberta Lucchini * –

Tra i risultati del Consiglio Atlantico di Madrid del 28-30 giugno scorso, ha avuto vasta eco mediatica l’invito a Svezia e Finlandia di unirsi alla NATO: la richiesta avanzata dai due governi il 20 maggio scorso è stata approvata all’unanimità e l’opposizione della Turchia, motivata dal supporto che i due Paesi nordici fornirebbero alle organizzazioni curde, è stata superata con la firma, a margine della sessione inaugurale del Consiglio, di un memorandum d’intesa fra gli Stati candidati e la Turchia stessa.
Comprensibilmente l’attenzione dei commentatori si è concentrata sulla storica rinuncia alla neutralità da parte di due Paesi che ne avevano fatto quasi una bandiera e sulla fine della “copertura” ai curdi. È stato trascurato, invece, un profilo del memorandum che potrebbe comportare sviluppi nell’ambito della Politica Europea di Sicurezza e Difesa dell’Unione Europea (PESD).
Ci interessa il punto 8 del documento, che impegna Finlandia e Svezia a sostenere il più ampio coinvolgimento possibile della Turchia (e di altri non meglio specificati Alleati non-UE) nelle iniziative presenti e future nell’ambito della PESD, compresa la partecipazione della Turchia stessa nel progetto della Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO), concernente la Mobilità Militare: una piattaforma strategica che consente la circolazione rapida e agevole di personale e mezzi militari in tutta l’UE, per via ferroviaria, stradale, aerea o marittima.
Come noto, la PESCO è prevista dall’art. 42, par. 6 del Trattato sull’Unione Europea TUE ed è consentita fra quegli Stati membri che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari e che hanno assunto impegni più vincolanti in materia ai fini delle missioni più impegnative. La relativa disciplina è retta dall’art. 46 TUE e dal Protocollo n. 10, allegato ai Trattati dell’Unione. Con decisione del Consiglio 2017/2315, dell’11 dicembre 2017, nove mesi dopo la notifica di recesso del Regno Unito, sempre ostile ad una maggiore integrazione nel settore della difesa, 25 Stati membri, tra cui non figurano Danimarca e Malta, decisero di dare attuazione alle norme citate.
Attualmente, la PESCO, la cui governance è affidata al Consiglio Affari esteri, che ne detiene la direzione e sovraintende al processo decisionale e alle procedure di valutazione, comprende 60 progetti, gestiti da gruppi di Stati in numero variabile con a capo un coordinatore, che riguardano vari ambiti connessi alla difesa e alla sicurezza comuni, con particolare riferimento alle strutture di formazione e alle capacità terrestri, aeree, marittime e spaziali, ibride e cibernetiche.
Il 5 novembre 2020 il quadro di partecipazione ai progetti è stato ampliato, con la decisione del Consiglio 2020/1639, che stabilisce le condizioni generali in base alle quali gli Stati terzi possono essere invitati, in via eccezionale, a partecipare a singoli progetti PESCO. Tali condizioni prevedono, tra l’altro, all’art. 3, la condivisione dei valori su cui si fonda l’Unione, il rispetto degli interessi di sicurezza e difesa dell’Unione, dei suoi Stati membri e del principio delle relazioni di buon vicinato con gli Stati membri, un buon dialogo politico con l’Unione, l’apporto di un valore aggiunto sostanziale al progetto e un contributo al raggiungimento dei suoi obiettivi.
La partecipazione, inoltre, non deve portare a dipendenze dallo Stato terzo, parte di un accordo vigente con l’Unione in tema di sicurezza delle informazioni.
Finora la partecipazione della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan a progetti PESCO è stata rifiutata, mentre il 6 maggio 2021 il Consiglio “Affari esteri” ha accolto all’unanimità, come stabilito dal quadro giuridico, la domanda di Canada, Norvegia e Stati Uniti di essere inclusi proprio nel progetto Mobilità Militare. Quest’ultimo è, dei tanti in corso di attuazione, quello che ha riscosso il maggior successo in termini di adesioni (ne è fuori la sola Irlanda). Esso prevede la semplificazione e la standardizzazione delle procedure di trasporto militare transfrontaliero e si prefigge di consentire la libera circolazione del personale e delle risorse militari sul territorio dell’UE. Nel respingere lo scorso anno la richiesta turca, alcuni Stati membri, fra cui l’Austria, hanno espressamente rimarcato la distanza esistente fra Ankara e Bruxelles in merito ai valori fondanti l’Unione europea, il che renderebbe incompatibile la Turchia. Appare dunque evidente che la firma del memorandum rappresenta, per Erdogan, una vera e propria rivincita, che rischia però di non avere immediatamente effetti concreti.
Subito dopo la firma del memorandum tripartito, infatti, il ministro degli Esteri cipriota, Ioannis Kasoulides, ha espresso viva preoccupazione e, di seguito il ministro degli Esteri greco, Nikos Dendias, ha ricordato, dinanzi al suo Parlamento, che Grecia e Cipro hanno su questa cooperazione strutturata un significativo potere di veto all’interno del Consiglio Affari Esteri.
È pur vero che il quadro geopolitico risulta oggi parecchio mutato, rispetto allo scorso anno, quando sbattere la porta in faccia ad Ankara era facilissimo, anche come forma di dissimulata protesta per comportamenti del Governo turco considerati ostili. Un esempio? L’acquisto dalla Russia del sistema missilistico S-400, condannato dagli Stati Uniti a suon di sanzioni, con relativa espulsione dal programma di sviluppo dei jet F-35. La guerra russo-ucraina ha cambiato tutto. Ha consentito alla Turchia, in equilibrio tra Russia e NATO, di ottenere diversi risultati diplomatici e tattici.
Ankara continua a proporsi quale intermediario credibile per tentare di risolvere la crisi del grano, mantenendo aperti i canali di comunicazione con Putin e con Zelensky e offrendo la propria collaborazione per lo sminamento delle acque del Mar Nero e per il trasporto del prezioso cereale su navi battenti bandiera turca.
Allo stesso tempo, approfittando delle sanzioni occidentali, la Turchia sta coltivando il vecchio progetto di un gasdotto sottomarino, da realizzare in partnership con Israele, per sfruttare “Leviatano”, l’immenso giacimento offshore di gas naturale, 130 chilometri al largo di Haifa, in modo da fornire una valida alternativa al gas naturale russo.
Inoltre, i turchi sono riusciti a vendere i propri droni all’Ucraina e, contemporaneamente, ad attirare sul proprio territorio investitori russi penalizzati dalle sanzioni occidentali. Per non parlare del dinamismo militare: la creazione di una zona-cuscinetto di circa 30 km al confine con la Siria, liberata dalle formazioni curde; il rimpatrio “volontario” di almeno 1 milione di siriani per fronteggiare l’ondata anti-immigrati nell’opinione pubblica turca (le elezioni presidenziali sono in programma l’anno prossimo) e la ben nota presenza in Libia.
Oltre al consolidamento della posizione strategica tra Mar Nero e Mediterraneo e alle armi negoziali che Erdogan mostra di saper utilizzare – spesso anche in aperto contrasto con il diritto internazionale – la firma del memorandum di Madrid aumenta il peso politico della Turchia sulla scena globale.
Certo, dal punto di vista tecnico, la richiesta di partecipazione al MM PESCO Project va indirizzata al coordinatore (nella specie, ai Paesi Bassi), il quale poi si fa sponsor, presso il Consiglio, della domanda, che dovrà essere accolta all’unanimità: tuttavia, uno o più Stati partecipanti, – Svezia e Finlandia, in questo caso – hanno la possibilità di patrocinare richieste di terzi, a maggior ragione in presenza di un formale impegno a farlo.
Può darsi che, a valle, la prescritta unanimità non si raggiunga e che la Turchia resti ancora in anticamera. Ma già l’aver guadagnato una promessa scritta è stato un successo per Erdogan, che sa bene come ottenere ciò che vuole: magari allentando i controlli di frontiera turchi e favorendo la pressione migratoria verso l’Europa.

* Coordinatrice Dipartimento Studi e Formazione – Istituto Diplomatico Internazionale.

Articolo in mediapartnership con il Giornale Diplomatico.