Taiwan. Lai prepara il nuovo volto della deterrenza

di Giuseppe Gagliano

Il presidente taiwanese Lai Ching-te ha scelto la via dell’anticipo strategico. Non tanto con armi nuove, ma con parole calibrate e apparizioni simboliche. A pochi giorni dal primo anniversario del suo insediamento, e in un clima di tensione ormai strutturale nello Stretto di Taiwan, Lai si è rivolto alle truppe dell’esercito e della marina, consapevole che il linguaggio della fermezza, sebbene misurato, rappresenta oggi la prima linea della sopravvivenza dell’isola.
Parlando a Kaohsiung di fronte a reparti di ingegneri militari e squadre di elicotteristi antisommergibile, Lai ha ribadito il valore della dedizione e del servizio, evitando accuratamente qualsiasi riferimento diretto alla Repubblica Popolare Cinese. Un silenzio eloquente, carico di significati strategici. A pochi giorni dalla Festa delle Barche Drago, il presidente ha rafforzato il legame tra cultura nazionale, identità militare e sicurezza collettiva. È una narrativa che unisce le tradizioni locali alla resistenza contro l’ingerenza di Pechino.
Ma dietro l’atteggiamento misurato si cela la consapevolezza di una minaccia incombente. Secondo fonti governative citate da Reuters, Taipei si prepara a una nuova serie di esercitazioni militari cinesi che Pechino potrebbe orchestrare proprio in concomitanza con il primo anniversario dell’elezione di Lai, il 20 maggio. Non è un caso. Le manovre denominate “Strait Thunder-2025A” seguono la stessa logica delle esercitazioni “Joint Sword” dello scorso anno: operazioni cicliche, con una numerazione progressiva, che suggeriscono una strategia a lungo termine per erodere psicologicamente la resistenza dell’isola.
Nel frattempo Taiwan ha testato pubblicamente, per la prima volta, i missili HIMARS ricevuti dagli Stati Uniti. La prova del 12 maggio, condotta nella base costiera di Jiupeng, ha mostrato una chiara capacità di deterrenza: con una gittata di 300 km, i razzi possono colpire obiettivi nel Fujian, la provincia cinese più vicina. Il messaggio è inequivocabile: Taiwan non è più soltanto un osservatore passivo delle dinamiche di potenza nel Pacifico.
Pechino da parte sua mantiene la postura aggressiva. Il Ministero della Difesa cinese e l’Ufficio per gli Affari di Taiwan hanno definito Lai “un fautore di crisi” e “separatista”, accusandolo di aver sabotato ogni possibilità di dialogo. È una narrazione consolidata, funzionale tanto alla politica interna del Partito Comunista quanto alla strategia di delegittimazione internazionale dell’attuale governo taiwanese.
Tuttavia è il contesto generale che merita attenzione. L’interesse strategico degli Stati Uniti per Taiwan, testimoniato dalle forniture militari e dall’addestramento delle forze locali, rafforza la posizione di Taipei ma, allo stesso tempo, alimenta l’irritazione di Pechino, che vede minata la propria pretesa di sovranità sull’isola. Una spirale che, a ogni anniversario, a ogni dichiarazione, si stringe sempre più.
La visita di Lai alle truppe, il silenzio strategico sul nemico, la messa in mostra delle capacità difensive: tutti questi elementi convergono in una postura di resistenza calibrata. Ma è chiaro che Taipei, sotto la guida di Lai, sta giocando una partita di lunga durata, in cui la comunicazione pubblica, la diplomazia silenziosa e la deterrenza militare si fondono per mantenere una fragile ma determinata autonomia strategica.