di Dario Rivolta * –
Da più parti si sostiene che la scintilla che potrebbe dare inizio alla terza guerra mondiale originerà nell’estremo oriente e in particolare a Taiwan. È risaputo che questa isola, formalmente autodichiaratasi autonoma, è rivendicata dalla Repubblica Popolare Cinese come parte integrante del proprio territorio. Apparentemente la quasi totalità degli Stati aderenti all’ONU condivide la posizione di Pechino, e infatti tutti costoro dichiarano di sostenere l’idea che “la Cina è una sola”, cioè quella “Popolare”. La conseguenza è che, sempre formalmente, quasi nessuno Stato del mondo prevede l’esistenza di un’ambasciata propria a Taiwan, né accetta di avere rapporti diplomatici ufficiali. Poi, come succede nella naturale ipocrisia della politica, molti, compresa l’Italia, vi tengono un “ufficio commerciale” e ospitano il corrispettivo taiwanese.
Gli Stati Uniti raggiungono il massimo dell’ipocrisia quando alte cariche delle istituzioni politiche americane vi si recano senza informare Pechino, e da sempre riforniscono quel Paese di armi di vario genere. Tutto ciò continuando a ribadire che la “Cina è una sola”: quella con capitale Pechino.
Perché si ricorre a questo doppio standard così contraddittorio? È bene ricordare che la Taiwan attuale (già Formosa) nacque come Stato alla fine della guerra civile cinese che fu vinta dalle forze maoiste. La parte sconfitta, guidata dal gen. Chiang Kai-shek, vi si era rifugiata rivendicando di essere la vera Cina (e cioè la Repubblica di Cina, già esistente dal 1912 e membro dell’ONU) e sperando di potersi ricongiungere vittoriosamente, in un ipotetico futuro, con la madre patria continentale. Fino al 1991 la Repubblica di Cina ha continuato attivamente a sostenere di essere l’unico governo legittimo della Cina (e di rappresentarla tutta), e durante gli anni cinquanta e sessanta la sua richiesta venne accolta dagli Stati Uniti e da alcuni dei suoi alleati. Durante la Presidenza Nixon però le cose cambiarono perché gli Usa decisero di approfittare della rottura dei rapporti di Pechino con Mosca per stringere nuove relazioni con la Repubblica Popolare in funzione anti-sovietica. Dall’ottobre 1971 l’Assemblea dell’Onu, pure piena di nuovi Stati non tutti alleati con l’occidente, ritirò così il riconoscimento di membro (e di titolare del Consiglio di Sicurezza) a Taiwan e lo concesse a Pechino. Subito la maggior parte degli Stati mondiali ruppe le relazioni diplomatiche con Taipei e le allacciò a tutti gli effetti con Pechino. È da allora che la Cina Popolare viene riconosciuta da quasi tutti come la vera “unica Cina” e che Taiwan viene considerata un’entità “separata”, ma solo “temporaneamente”. In realtà, come vediamo tutti i giorni, la pratica è un’altra e, anche se non formalmente, tanti continuano a dialogare con Taipei come se fosse uno Stato a sé stante.
Vediamo di cosa stiamo parlando: si tratta di un fazzoletto di terra molto vicino alle coste continentali cinesi, con un grande sviluppo economico ma con una popolazione di soli 24 milioni di abitanti (la Repubblica Popolare vanta un miliardo e trecento milioni di individui). Come mai una realtà così piccola potrebbe diventare la ragione di uno scontro bellico potenzialmente distruttivo per tutto il mondo? Perché gli USA continuano ad armarla mettendo già nel conto le reazioni fortemente negative di Pechino?
Per comprenderlo occorre fare ricorso alla geopolitica. Gli Stati Uniti sono oramai da anni la potenza egemone nell’intero globo e, anche attraverso dei documenti ufficiali del governo, hanno ribadito di voler continuare ad esserlo nel futuro. (A questo proposito, e non incidentalmente, dobbiamo ricordarci che noi italiani, come tutti gli europei, siamo stretti alleati degli USA e, seppur da una posizione molto minore, partecipiamo a questa egemonia e ne traiamo, in parte, i relativi vantaggi). Una delle caratteristiche di una posizione dominante è la sicurezza del controllo degli oceani e delle vie di comunicazione. La Cina è cresciuta incommensurabilmente dopo la morte di Mao Ze Dong e, con la sua economia e con i grandi investimenti effettuati nelle forze armate, sta insidiando di fatto l’egemonia americana. Come comprensibile, a Washington questo fatto non può piacere. È quindi giudicato necessario, da chi concorda con le posizioni americane, che in qualche modo la Cina di Pechino sia “contenuta”. Ecco quindi dove la geografia viene in aiuto.
Per garantirsi anche nel futuro il controllo delle vie di comunicazione e “contenere” l’espansione cinese, gli USA hanno innanzitutto costruito un’alleanza con i Paesi che costituiscono la prima “catena” di isole che, all’occorrenza, potrebbero impedire alle navi cinesi di potersi affacciare sull’Oceano Pacifico. Si tratta a nord di Corea del Sud e del Giappone, al centro proprio di Taiwan e a sud delle Filippine, della Malesia/Borneo e del Vietnam. Tutti questi paesi hanno i loro motivi per diffidare di Pechino e i loro rapporti bilaterali con la Repubblica Popolare sono pieni di rivendicazioni contrastanti in merito a isolette di varie dimensioni oggetto di contenzioso. Inoltre, il Mar Cinese del Sud con le sue tante isole e i confini di sovranità marittima che ne derivano è ricco di petrolio, gas naturale e di fauna ittica, e oltre ad essere una importante via di navigazione può diventare sede di basi militari strategiche.
Poiché essere prudenti è un bene ma esserlo doppiamente lo è ancora di più, gli Stati Uniti hanno deciso di confermare una seconda “catena” di isole in grado di bloccare ulteriormente transiti giudicati possibilmente “inopportuni” anche da e verso l’Oceano Indiano. Ad est e a sud della precedente “catena” si è quindi rinforzata un’altra alleanza che comprende Guam, Palau, tutta l’Indonesia a partire dalla Nuova Guinea e l’Australia.
A questo punto diventa comprensibile anche il perché la Cina si senta circondata in modo ostile e cerchi di reagire in qualche modo a partire dal “recuperare” il potenziale nemico più vicino: Taiwan, appunto.
Pechino è la capitale di uno Stato di più di un miliardo di persone e, considerato che gran parte del suo territorio è desertico, vuole garantirsi la possibilità di nutrire i propri cittadini anche attraverso le importazioni continuative di generi alimentari. Nello stesso tempo sta cercando di far sì che la sua economia continui a svilupparsi e per farlo necessita di rifornimenti energetici che arrivano in gran parte dal Medio Oriente, quindi attraverso l’Oceano Indiano. Esattamente la stessa via che è indispensabile per garantire che le esportazioni che hanno indispensabilmente contribuito alla sua crescita degli ultimi trent’anni possa continuare a rimanere percorribile, qualunque cosa succeda.
Non è un caso che i cinesi si siano impadroniti (contro la sentenza del Tribunale Internazionale del Mare) di qualche scoglio appartenente alle Filippine aumentandone artificialmente la superfice e installandovi basi militari. Anche tutti gli altri contenziosi aperti con Giappone, Vietnam, Malesia e Brunei puntano allo stesso scopo.
L’indipendenza di Taiwan non è dunque una questione di confronto tra diversi sistemi di governo né una pura questione di principio. Rientra in un gioco molto più ampio tra una potenza egemone e una che punta a non rimanervi soggetta. Il Mar Cinese Meridionale è oggi il teatro della competizione strategica sino-americana. Come sempre in questi casi nessuno ha tutte le ragioni, ma nemmeno tutti i torti: ognuno dei protagonisti persegue il proprio egoistico interesse e ritiene che sia suo dovere (o necessità) il farlo.
Come può risolversi la questione? Potrebbe continuare in un apparente stallo per anni ma poi la soluzione starà solamente in uno dei due modi possibili: o si troverà un accordo che consentirà una coesistenza pacifica o si arriverà a uno scontro bellico dalle dimensioni imprevedibili. Purtroppo, anche se non ne sento parlare, una situazione simile si verificò negli anni ’30 del secolo scorso con un Giappone in forte espansione e gli USA che non gradivano cedere il loro controllo sull’Oceano. Allora si cominciò con le sanzioni americane e si arrivò nel dicembre del ’41 a Pearl Harbour.
* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.