Tanzania. La crescita economica che nasconde le fratture sociali

di Giuseppe Gagliano

Guardando ai dati macroeconomici, la Tanzania appare come uno dei Paesi più dinamici del continente africano. Con un Pil stimato attorno agli 84 miliardi di dollari nel 2025 e una crescita che sfiora il 6%, la sua traiettoria sembra quella di un futuro hub economico regionale. A trainare questa espansione sono tre pilastri: agricoltura, risorse minerarie e turismo, affiancati da una politica infrastrutturale aggressiva. Ma dietro ai numeri brillanti si nasconde un sistema fragile e diseguale, dove la ricchezza si concentra e le disparità si ampliano.
L’agricoltura resta centrale nell’economia nazionale: occupa il 65% della forza lavoro e fornisce oltre un quarto del PIL. Caffè, cotone, tè, anacardi e sisal sono colonne portanti dell’export. Tuttavia, la dipendenza dalle colture tradizionali espone il Paese a shock climatici devastanti. Le alluvioni di aprile-maggio 2024 hanno mostrato quanto il settore resti fragile di fronte a siccità e inondazioni sempre più frequenti. La crescita agricola, insomma, è un gigante dai piedi d’argilla.
Il settore minerario è il più promettente. Secondo la Banca Centrale, i ricavi sono saliti a 4,1 miliardi di dollari nel 2025, trainati per oltre la metà dalle esportazioni d’oro. Le grandi compagnie internazionali, come Barrick Gold Corporation, e joint venture come Twiga Minerals dominano il mercato. I diamanti hanno visto un raddoppio dei ricavi e si moltiplicano i progetti per l’estrazione di nichel e grafite. Tra questi, spicca il Kabanga Nickel Project, considerato uno dei più ambiziosi dell’Africa orientale.
Ma questa ricchezza non è neutrale. La corsa alle risorse strategiche porta con sé tensioni con le comunità locali, spesso espropriate dei propri territori senza reali compensazioni. Le promesse di sviluppo si scontrano con proteste, sfratti e fratture sociali. La ricchezza mineraria rischia così di diventare un fattore di instabilità più che di progresso condiviso.
L’espansione economica si accompagna a un piano infrastrutturale imponente. Il governo ha rilanciato la costruzione della nuova linea ferroviaria Tanzania Standard Gauge Railway per collegare i principali snodi interni con Uganda, Burundi, Ruanda e Repubblica Democratica del Congo, finanziata anche dall’Export Credit Bank of Turkey. Dodoma partecipa inoltre al progetto Lobito Corridor, che apre un corridoio logistico fino all’Oceano Atlantico.
Accese polemiche ha poi suscitato la concessione trentennale del porto di Porto di Dar es Salaam al colosso logistico DP World, controllato dagli Emirati Arabi Uniti. Un’operazione da 250 milioni di dollari che ha generato proteste interne e ricorsi legali, ma che testimonia l’interesse strategico estero per le infrastrutture tanzaniane.
Anche il turismo ha registrato una forte crescita: da 4,37 milioni di visitatori nel 2020 a 5,36 milioni nel 2024, con l’obiettivo governativo di arrivare a 8 milioni entro il 2030. Un boom che si concentra in particolare nei parchi naturali e nelle riserve, ma che entra in rotta di collisione con le comunità locali. L’espansione delle aree turistiche ha portato a sfratti forzati e tensioni, come nel caso dei Maasai nella regione di Loliondo, dove migliaia di persone sono state espulse per far spazio a concessioni turistiche per famiglie reali e investitori arabi.
Il contrasto tra sviluppo turistico e diritti delle popolazioni indigene sta diventando uno dei nodi politici più delicati, amplificato dalle proteste delle ONG internazionali e dagli appelli per un turismo sostenibile.
Sul fronte energetico, la messa in funzione della centrale idroelettrica Julius Nyerere Hydropower Station da 2.115 MW segna un passaggio cruciale verso l’autosufficienza. In parallelo, la costruzione dell’East African Crude Oil Pipeline, che collegherà l’Uganda alla Tanzania, rafforza la posizione di Dodoma come hub regionale per il transito di risorse energetiche.
Ma anche qui emergono contraddizioni. Il progetto EACOP è contestato da organizzazioni ambientaliste e comunità locali per i rischi ambientali e sociali. Diversi istituti bancari internazionali hanno rifiutato di finanziare l’opera, segnalando la crescente sensibilità globale sui temi climatici.
Dietro i numeri della crescita si nasconde un dato meno brillante: la Tanzania resta un Paese segnato da forti squilibri sociali. Secondo i dati di Oxfam, il 43% della popolazione vive ancora in condizioni di povertà e il Paese occupa il 130° posto al mondo nella lotta alle disuguaglianze. Solo il 14% del bilancio statale è destinato all’istruzione e appena il 5% alla sanità, ben lontani dagli standard raccomandati. Il 57% della popolazione non ha accesso ai servizi sanitari di base.
Questo squilibrio tra crescita economica e redistribuzione sociale rischia di diventare la vera mina a orologeria per la stabilità del Paese. Mentre infrastrutture e miniere attirano capitali, una parte consistente della popolazione resta ai margini, esclusa dai benefici della modernizzazione.
La Tanzania si trova davanti a un bivio: può diventare un motore economico dell’Africa orientale o rimanere intrappolata in uno sviluppo diseguale. Per farlo, dovrà trasformare la sua crescita quantitativa in progresso inclusivo, investendo in istruzione, sanità e coesione sociale. Senza questo passaggio, l’espansione rischia di rivelarsi una bolla: brillante nei numeri, ma fragile nella sostanza.