Terremoto Cina: lo yuan svalutato del 3,5%. Tremano le borse, destabilizzati i paesi dell’area

di Daniele Priori

Yuan grandeChe si tratti di speculazione, di debolezza interna o di strategia politica, l’economia cinese in queste ore si sta dimostrando un dragone di carta, pericoloso e inaffidabile. Succede che in poche ore lo yuan è stato svalutato di oltre il 3,5% sul dollaro, mandando in fibrillazione le borse europee che continuano ad avere importanti perdite, specie per quanto riguarda i beni di lusso che tanto piacciono alla classe emergente del paese. All’apertura Milano ha infatti perso il 2,5%, Londra l’1,2%, Francoforte l’1,8% e Parigi l’1,6%.
A spingere la Banca cinese alla svalutazione è stato il rallentamento dell’industria manifatturiera, cresciuta “solo” del 6%, dell’export e delle vendite, aumentati “solo” del 10,5%, come pure il consistente calo della domanda interna. Il settore del tessile ha conosciuto scioperi a dire il vero scontati, dal momento che i lavoratori delle industrie cinesi si trovano notoriamente prossimi allo schiavismo, costretti a turni massacranti, ore giornaliere di straordinario non pagato, stipendi da fame e il licenziamento sempre pronto in caso di malattia, maternità o lamentele.
Per il Fondo monetario internazionale la svalutazione dello yuan contribuisce a “integrare in modo rapido la Cina nei mercati finanziari globali”. Pechino, infatti, già ieri ha spiegato la decisione affermando che si tratta di una svalutazione voluta e pilotata, richiesta dalla comunità internazionale. Ma per le borse occidentali si tratta di scossoni che creano danni, che portano ad un colossale accumulo di titoli in vendita.
Il prezzo del petrolio, materia prima di cui la Cina è il secondo importatore, è destinato a crollare poiché la moneta debole incide in modo deciso sugli acquisti. Previsto anche il calo del prezzo dell’oro, che a consegna immediata è sceso dello 0,4% a 1.103 dollari l’oncia.
A preoccupare è inoltre la possibile speculazione in arrivo, tanto che già si parla di guerra delle monete, con i mercati dell’area in subbuglio a causa dell’entrata in crisi della produzione delocalizzata delle aziende cinesi in paesi come in Bangladesh, Vietnam, Indonesia, Filippine.
Un Made in China che costa meno destabilizza altri paesi produttori quali quelli africani ed euroasiatici, ma anche produttori di materie prime come Canada e Australia.