di Giuseppe Gagliano –
La tensione tra Thailandia e Cambogia, mai sopita, è tornata a farsi sentire il 28 maggio, quando uno scontro armato ha causato la morte di un soldato cambogiano. La reazione è stata immediata: rafforzamenti militari da entrambe le parti e nuove restrizioni ai valichi di frontiera. Ma non è solo l’incidente a preoccupare. È il contesto geopolitico, storico e simbolico a rendere la situazione delicata. Perché quel confine, tracciato nel 1907 dall’amministrazione coloniale francese, è ancora oggi una ferita aperta che riemerge a ogni minima scintilla.
A distanza di pochi giorni, i ministeri della Difesa dei due Paesi hanno annunciato l’intenzione di riportare le truppe alle posizioni precedenti, secondo quanto stabilito nel 2024. Un passo indietro apparente, più diplomatico che sostanziale, motivato dalla volontà di “allentare le tensioni” ma che non scioglie il nodo centrale: l’assenza di una demarcazione definitiva lungo diversi tratti dei confini condivisi, soprattutto nelle aree contese.
Secondo fonti ufficiali thailandesi, i due Paesi condividono 817 km di confine e 17 valichi autorizzati, ma resta aperta la questione dei “punti grigi”, ovvero quelle zone lasciate volutamente ambigue dalla geografia coloniale, sfruttate da entrambi i governi nel corso del tempo per rivendicazioni sovrapposte. La proposta cambogiana di portare la questione alla Corte Internazionale di Giustizia riflette il desiderio di uscire dall’ambiguità storica e affidarsi a un arbitrato giuridico. Bangkok, al contrario, rifiuta questa opzione e insiste sulla via bilaterale, consapevole di avere più leve negoziali sul piano regionale che in un’aula dell’Aja.
La memoria collettiva dei due popoli non dimentica gli scontri armati del 2008, innescati dalla disputa sul tempio di Preah Vihear, un santuario dell’XI secolo divenuto teatro di battaglie diplomatiche, simboliche e reali. Tra il 2008 e il 2011, gli scontri causarono una dozzina di vittime e portarono a un’escalation militare che la comunità internazionale faticò a contenere.
L’attuale episodio mostra le stesse dinamiche, ma un diverso quadro politico. A guidare i due Paesi sono oggi Paetongtarn Shinawatra, figlia dell’ex premier tailandese Thaksin, e Hun Manet, figlio del leader cambogiano Hun Sen. Due dinastie che si erano in passato sostenute reciprocamente e che oggi si trovano sotto la lente dell’opinione pubblica interna, con pressioni contrapposte tra nazionalismo, pragmatismo e le attese di un elettorato sempre più polarizzato.
Il 6 giugno, il ministro degli Esteri cambogiano Prak Sokhonn ha ribadito che la sola diplomazia bilaterale non basta più. Ha chiesto ufficialmente l’intervento della Corte internazionale, parlando di “una soluzione giusta, imparziale e duratura” fondata sul diritto internazionale. L’escalation verbale è proseguita l’8 giugno con la decisione di Bangkok di dimezzare gli orari di apertura di dieci valichi di frontiera, incluso quello di Sa Kaeo, il più trafficato, portandoli dalle 22:00 alle 16:00. Misura presentata come precauzione, ma che ha un chiaro valore politico e intimidatorio.
Il riaccendersi del contenzioso avviene in un’area già attraversata da tensioni strategiche più ampie: la militarizzazione progressiva del Sud-Est asiatico, l’espansione dell’influenza cinese, i nuovi equilibri economici e il ruolo sempre più assertivo delle potenze regionali nel contenere la pressione migratoria, gestire le risorse naturali e difendere i confini. In questa cornice, ogni incidente – anche minore – può diventare il casus belli per ridefinire rapporti di forza o consolidare leadership traballanti.
La riunione del Comitato congiunto per i confini, fissata per il 14 giugno, sarà quindi molto più di un incontro tecnico. Sarà un banco di prova per misurare la reale volontà di disinnescare la crisi, e non solo congelarla in attesa della prossima esplosione.