Thailandia. Trasferiti uiguri in Cina: sanzioni dagli Usa

di Giuseppe Gagliano –

L’amministrazione Trump ha imposto sanzioni alla Thailandia per la deportazione di uiguri in Cina. Non si tratta soltanto una questione di diritti umani, bensì è l’impiego di uno strumento di pressione geopolitica con dinamiche che hanno poco a che fare con la neutralità e molto con la competizione strategica tra grandi potenze.
Da anni gli Stati Uniti e i loro alleati denunciano il trattamento riservato dalla Cina alla minoranza uigura nella regione dello Xinjiang, accusando Pechino di violazioni sistematiche dei diritti umani. Tuttavia, sebbene vi siano prove di una repressione severa, il modo in cui il tema viene affrontato a livello internazionale mostra chiaramente che la difesa dei diritti umani è solo una parte della questione.
L’imposizione di sanzioni alla Thailandia, un Paese storicamente vicino a Washington, per aver rimpatriato cittadini cinesi è un atto che va oltre la tutela degli uiguri deportati. È una mossa che serve a lanciare un messaggio politico a Pechino e, allo stesso tempo, a Bangkok, affinché non si spinga troppo nella direzione di una maggiore integrazione con la Cina.
Il principio di non respingimento, sancito dalla Convenzione contro la Tortura e da altri trattati internazionali, è uno dei capisaldi del diritto umanitario. Tuttavia, la sua applicazione selettiva rivela le contraddizioni di un sistema in cui il diritto viene usato come strumento di pressione e non come standard universale.
Negli ultimi anni, abbiamo visto lo stesso principio essere interpretato in modi molto diversi a seconda del contesto politico. Quando si tratta di migranti provenienti da zone di conflitto del Medio Oriente e dell’Africa, molti governi occidentali, inclusi gli Stati Uniti, hanno trovato modi per aggirare il principio del non respingimento, con politiche di esternalizzazione dei confini e accordi con Paesi terzi. Eppure, quando la Cina è coinvolta, il rispetto assoluto del diritto diventa improvvisamente una priorità inderogabile.
Le sanzioni contro la Thailandia devono essere lette nel contesto della crescente competizione tra Stati Uniti e Cina per l’influenza nel Sud-Est asiatico. Bangkok è un attore chiave nella regione, con legami storici con Washington ma anche con una dipendenza economica crescente da Pechino. Punire la Thailandia per una decisione che, secondo il governo locale, rientrava nelle proprie prerogative nazionali significa mettere pressione su un alleato per evitare un suo ulteriore avvicinamento alla Cina.
Nel frattempo, Pechino ha risposto con la sua narrativa, ribadendo che gli uiguri deportati non sono perseguitati ma reintegrati nella società, secondo le leggi cinesi. Per la leadership cinese, la questione uigura è parte della lotta al separatismo e all’estremismo islamista, una posizione che viene sostenuta da molti Paesi dell’Asia centrale e del Medio Oriente, i quali non hanno mai adottato misure di condanna nei confronti di Pechino.
Questa vicenda dimostra come il diritto internazionale, lungi dall’essere un codice neutrale e universalmente applicato, sia uno strumento al servizio delle potenze globali per plasmare gli equilibri politici. La Cina, che per anni ha accettato il sistema normativo occidentale senza metterlo apertamente in discussione, sta gradualmente sviluppando una propria visione delle regole del gioco.
La crescente influenza cinese su istituzioni come l’ONU e il progressivo consolidamento di un blocco di Paesi che non seguono automaticamente l’agenda occidentale indicano che la competizione normativa sarà uno dei principali fronti dello scontro geopolitico nei prossimi anni.
In definitiva il caso degli uiguri deportati dalla Thailandia non riguarda solo i diritti umani. Rappresenta un banco di prova per la capacità degli Stati Uniti di usare il diritto come strumento di pressione su alleati e rivali, e per la Cina di dimostrare che esiste un’alternativa alla narrazione giuridica dominante. Come sempre in politica internazionale, la questione non è mai solo ciò che sembra, e dietro ogni azione legale si cela una precisa strategia di potere.