Thailandia. Uiguri detenuti: un’altra pagina buia nei diritti umani

di Giuseppe Gagliano

Quando si parla di diritti umani, spesso l’indignazione globale si accende solo a tragedia avvenuta. Ma ciò che sta accadendo nelle celle di Bangkok dovrebbe scuotere le coscienze ben prima che sia troppo tardi. Una lettera disperata, ottenuta dall’Associated Press, svela il dramma di 43 uomini uiguri, una minoranza etnica di origine turco-musulmana perseguitata in Cina, che temono un’imminente deportazione verso un destino di torture, prigionia e forse di morte.
“Potremmo essere imprigionati e potremmo anche perdere la vita. Facciamo appello urgente a tutte le organizzazioni internazionali e ai paesi che si occupano dei diritti umani affinché intervengano immediatamente per salvarci da questo tragico destino prima che sia troppo tardi”. Questo è il grido d’aiuto contenuto nella lettera firmata dai detenuti, un appello disperato rivolto al mondo intero.
Il timore nasce da un precedente terribile: nel 2015 un gruppo di uiguri detenuti in Thailandia fu deportato in Cina con la stessa procedura. Molti di loro scomparvero nelle maglie della repressione cinese. I 43 uomini attualmente detenuti a Bangkok vedono davanti a sé lo stesso scenario.
Secondo quanto riportato dall’Associated Press, l’8 gennaio scorso funzionari dell’immigrazione thailandese hanno presentato ai detenuti documenti di espulsione “volontaria” da firmare. Un’azione che ha scatenato il panico. La firma di quei documenti significherebbe, di fatto, accettare la propria deportazione verso la Cina. Consapevoli delle conseguenze, gli uomini si sono rifiutati.
Ma dietro la parola “volontaria” si cela una pressione che somiglia più a un ricatto. Già nel 2015 documenti simili furono usati per coprire operazioni di deportazione forzata, spacciandole come decisioni prese dai detenuti stessi.
Le organizzazioni internazionali sono finora rimaste in gran parte silenti. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea, che spesso si ergono a paladini dei diritti umani, sembrano impegnati altrove. Eppure il caso degli uiguri dovrebbe essere al centro dell’agenda globale.
La Thailandia dal canto suo non è nuova a cedere alle pressioni di Pechino. Il governo cinese considera gli uiguri come una minaccia alla sicurezza nazionale, etichettandoli spesso come “terroristi”. È chiaro che Bangkok stia cercando di bilanciare le relazioni diplomatiche con un gigante economico come la Cina, anche a costo di sacrificare vite umane.
La questione degli uiguri non è solo un problema thailandese. È un tassello di un quadro più ampio, quello della repressione sistematica della minoranza uigura nello Xinjiang, documentata da numerosi report. Campi di internamento, lavori forzati, sterilizzazioni di massa.
Le Nazioni Unite hanno definito le azioni cinesi come possibili crimini contro l’umanità. Eppure, davanti a queste evidenze, il mondo continua a trattare Pechino con i guanti, complici interessi economici troppo grandi per essere messi in discussione.
Il caso dei 43 uiguri detenuti in Thailandia è un test cruciale per la comunità internazionale. Intervenire significa non solo salvare vite, ma anche inviare un segnale chiaro contro le deportazioni forzate e la repressione delle minoranze.
Lasciare che la Thailandia proceda con queste deportazioni senza conseguenze significa legittimare una politica di oppressione globale. E quando il mondo tace di fronte a queste ingiustizie, il messaggio è chiaro: i diritti umani valgono solo quando non disturbano i giochi di potere.