di Giuseppe Gagliano –
Non sono bastati dieci mesi al governo di Paetongtarn Shinawatra per consolidare una coalizione che, fin dal primo giorno, ha camminato sull’orlo dell’instabilità. Giovane erede di una dinastia politica tanto potente quanto controversa, figlia dell’ex premier Thaksin Shinawatra esiliato, processato, eppure mai politicamente sconfitto, Paetongtarn rischia oggi di perdere la maggioranza che la sostiene, sotto il peso delle tensioni interne e delle sfide esterne.
La miccia è stata accesa dall’United Thai Nation Party (UTN), secondo partner più rilevante della coalizione guidata dal Pheu Thai Party, che avrebbe chiesto le sue dimissioni come condizione per rimanere al governo. Una minaccia che, se attuata, segnerebbe il crollo definitivo dell’equilibrio parlamentare, già indebolito dalla fuoriuscita del partito Bhumjaithai il 18 giugno.
La mossa dell’UTN arriva in un contesto rovente, con il governo alle prese con tre fronti esplosivi: un’economia stanca che fatica a riprendersi sotto i colpi dei dazi statunitensi; un conflitto diplomatico e militare riacceso con la Cambogia lungo un confine tracciato in epoca coloniale; e infine, una leadership percepita come debole, che fatica a imporsi tanto sul piano interno quanto nel teatro geopolitico regionale.
Le parole provenienti dal Partito Democratico, unico tra gli alleati a offrire un supporto pubblico alla premier, sembrano più un gesto di cortesia che una vera garanzia di stabilità. Tanto più che la moneta nazionale, il baht, ha reagito negativamente, scivolando per il quinto giorno consecutivo, sintomo evidente di una fiducia ormai in crisi anche tra gli investitori.
Dietro lo scontro politico, si muove anche il peso dell’esercito. La visita della premier al comandante delle forze armate del nord-est, il generale Boonsin Padklang, da lei definito in privato un “oppositore”, è un altro segnale della precarietà del suo potere. Non solo simbolica, la mossa è un tentativo di disinnescare un possibile fronte militare, in una regione già segnata da tensioni transfrontaliere.
La questione cambogiana non è marginale. I 17 valichi ufficiali e gli 817 chilometri di frontiera condivisa sono da oltre un secolo teatro di dispute. In questi giorni le truppe dei due Paesi si sono mosse con discrezione ma fermezza, in un braccio di ferro che va ben oltre il controllo territoriale: è una questione di prestigio nazionale, in un’area in cui il nazionalismo è benzina sulle braci della politica.
Il declino del Pheu Thai, partito che fu incontrastato protagonista delle urne dal 2001, è il sintomo di un sistema che non riesce più a rigenerarsi. Nonostante i colpi di Stato, le condanne giudiziarie e le fughe all’estero, i Shinawatra sono sempre tornati al potere. Ma oggi, in un Sud-Est asiatico agitato dai ritorni autoritari e dal riarmo strategico, anche il populismo fondato sul carisma familiare sembra cedere il passo a dinamiche più spietate.
Se Paetongtarn dovesse cadere, la Thailandia rischia di precipitare in un altro ciclo di incertezza: un Paese senza stabilità, incastrato tra le ambizioni della Cina e le pressioni degli Stati Uniti, in una regione dove nessun vuoto di potere resta a lungo scoperto.