di Giovanni Caruselli –
Prima ancora di entrare ufficialmente in carica Donald Trump non è riuscito a trattenersi dal comunicare, con la sua prosa rude e intimidatoria da sceriffo del Far West, le ambizioni della sua seconda presidenza. Canada, Groenlandia, Filippine, Panama, Golfo del Messico. Amanda Lynch è una delle voci più autorevoli riguardo alle alterazioni climatiche della Groenlandia, che studia da trent’anni. Insegna alla Brown University e ha spiegato semplicemente e chiaramente al New York Times perché gli Usa non possono disinteressarsi del futuro dell’isola. Lo scioglimento progressivo dei ghiacci dell’Artico pone due questioni rilevanti: la navigabilità a usi commerciali di aree molto vicine agli Stati Uniti e gli usi strategici collegati al possesso della più grande isola del pianeta. Negli ultimi decenni i traffici nell’Artico sono aumentati del 37% e ci sono buoni motivi per pensare che questo trend andrà avanti. Che i russi rivendichino quasi un monopolio di Stato sul controllo di quest’area è noto a tutti. Ed è anche noto che nel sottosuolo della Groenlandia si trovano metalli sempre più utili all’evoluzione delle tecnologie moderne. L’isola ha quasi 57 mila abitanti inuit, pochissimi in relazione alle sue dimensioni sette volte maggiori dell’Italia. Le dichiarazioni di Trump riguardo alle ambizioni Usa sull’isola feriscono l’immagine internazionale della piccola Danimarca e dell’Unione Europea più di quanto realmente le danneggino. Che Washington si assuma l’onere della protezione strategica della Groenlandia potrebbe anche essere considerata una buona notizia, dal momento che la Ue è ben lontana dal poterlo fare, alle prese con la costituzione di un esercito europeo che viaggia alla velocità di una tartaruga assonnata. È probabile che tutta la questione si risolverà con trattative più o meno segrete e il minacciato uso della forza resterebbe come un duro avvertimento alle ambizioni russo cinesi nell’area artica. I leader danesi, infatti, rendendosi conto dell’impotenza del proprio Paese di fronte a inaspettati eventi politici e militari, non si sono dichiarati contrari a ospitare in Groenlandia nutriti gruppi di militari americani.
Molto più urgente appare invece la questione delle Filippine, ormai quotidianamente assediate dalla marina cinese, e cruciali per la libera navigazione commerciale dell’Indopacifico sulla quale non si può transigere. Nel braccio di mare che separa le terre del Dragone da quelle di Manila transita più del 50% delle petroliere che trasportano l’oro nero in varie zone del pianeta. Pechino ha ripetutamente mostrato di volere imporre la sua sovranità, o almeno il suo controllo, su questa rotta marittima, fondamentale per il commercio mondiale. In questo contesto la linea politica di Trump non si discosta da quella dell’amministrazione Biden, piuttosto la radicalizza in previsione di un possibile conflitto con la Cina.
Meno comprensibile l’accenno al Canada con il quale gli Usa non hanno mai intrattenuto rapporti cordiali. I motivi di questa celata ostilità sono due. Il Canada è l’unico Stato del Nord America sul quale gli americani non possono esercitare molta influenza, data la sua estensione e la sua relativa autonomia economica. Inoltre il conservatorismo canadese è molto più debole di quello Usa avendo il Paese risentito per secoli dell’influenza europea ostile al liberismo esasperato. Ma non si comprende bene quale sia l’obiettivo di Trump in merito.
I leader europei attendono con una certa ansia le mosse di Trump dopo che sarà entrato in carica come Presidente Usa. Si da per scontato che ci sarà una stretta daziaria sulle esportazioni europee e si pensa che militarmente l’Europa sarà sempre più scoperta e costretta a inseguire il 5% di Pil da investire in armi. Il che significa più tasse o meno servizi sociali e assistenziali per i cittadini europei, anche se l’interscambio commerciale transatlantico possiede una convenienza bilaterale di fondo di cui nessuno vuole fare a meno. Anche se ciò preoccupa non poco i produttori EU, resta il fatto che la Presidenza statunitense ha la durata di soli quattro anni. Se consideriamo che Vladimir Putin ha rilanciato nella trattativa per la pace in Ucraina il ritiro delle truppe della NATO entro i confini del 1990 – cosa palesemente improponibile – la posizione dell’Europa si presenta piuttosto problematica. Il progressivo ridursi del suo potere contrattuale in termini economici incoraggia sia ad Est che ad Ovest atteggiamenti di ostilità – in modi diversi – che incoraggiano le Destre nostrane a guardare ad Est, se non con aperta simpatia, con il desiderio di una riapertura delle relazioni economiche bruscamente interrotte dalla guerra in Ucraina. L’aumento del costo della vita dovuto alla fine delle importazioni russe di materie prime energetiche – gas e petrolio – ha colpito pesantemente il vecchio continente e ci si chiede se non valga la pena tornare indietro tentando di risolvere in maniera compromissoria il conflitto Mosca – Kiev.
L’unica cosa sulla quale non ci sono dubbi è che per il momento si può solo sognare l’indipendenza dell’Europa, non pensarla realisticamente. Bisogna pagare in qualche modo gli ottant’anni di benessere economico all’ombra degli Usa, come conseguenza della fine della seconda guerra mondiale. Alcide de Gasperi aveva insistito fin dall’inizio sulla costituzione di un esercito europeo come premessa per una reale indipendenza del Continente. Ma l’Europa aveva perduto la guerra e le decisioni furono prese da chi l’aveva vinta al costo di milioni di vite umane. Gli errori si pagano e due guerre mondiali in trent’anni non potevano restare senza conseguenze.