Trump nel Golfo: affari, criptovalute e il Sultanato di Mar-a-Lago

di Giuseppe Gagliano

Riyad, Abu Dhabi, Doha: Donald J. Trump, presidente degli Stati Uniti, torna nel Golfo arabo, dove il profumo dei petrodollari si mescola a quello degli affari privati. Non è una visita di stato qualunque: è un pellegrinaggio nella terra promessa del business, dove le monarchie del deserto e il “sultanato di Mar-a-Lago” parlano la stessa lingua, quella del profitto senza scrupoli.
Da decenni Trump intreccia rapporti con i sauditi: dal 1991, quando vendette il suo yacht al principe bin-Talal per 20 milioni di dollari, al Plaza Hotel rilevato quattro anni dopo dalla stessa cordata. Poi il 45esimo piano della Trump World Tower, acquistato dai sauditi nel 2001, e la futura Trump Tower a Jedda. Non mancano partnership nel golf e i 2 miliardi di dollari del fondo sovrano saudita investiti nell’azienda di Jared Kushner, genero del presidente.
Questa volta, il viaggio assume un sapore ancora più sfacciato. In Qatar, Trump riceverà un Boeing 747 “lievemente usato”, un dono dei reali che sfida apertamente le norme costituzionali contro i regali da sovrani stranieri. È l’estetica kitsch di una presidenza che non nasconde la sua natura: un grande bazar dove tutto, persino la Casa Bianca, sembra in vendita.
Al centro della visita, il Saudi-Us Investment Forum, un summit che riunirà i tycoon della Silicon Valley – da Elon Musk a Mark Zuckerberg, da Sam Altman a Ruth Porat – con i potentati sauditi. Obiettivo: canalizzare i 600 miliardi di dollari promessi da Mohammad bin Salman negli Usa, mentre gli Emirati pianificano investimenti per 1.300 miliardi in dieci anni. Non è solo business tradizionale: il focus è sul tech e, soprattutto, sulle criptovalute, il nuovo Eldorado della cleptocrazia trumpiana.
Trump, che un tempo definiva le cripto un “disastro”, oggi è il volto di $TRUMP, un memecoin lanciato a gennaio, e della World Liberty Financial, holding di valute digitali come $Wlfi e Usd1, che hanno già attirato 300 milioni di dollari. Il 75% dei profitti va direttamente alla famiglia Trump, inclusa la first lady con il suo $Melania coin. Una cena di gala al golf club in Virginia per i 220 maggiori investitori e un tour privato della Casa Bianca per i top 25 completano il quadro di un’operazione che puzza di corruzione lontano un miglio.
A Dubai, meanwhile, il mondo cripto celebra la sua alleanza con il Golfo. A maggio, un “cripto-rave” ha visto riuniti magnati come Justin Sun, fondatore di Tron, e figure controverse come Changpeng Zhao, graziato da Trump dopo una condanna per illeciti finanziari. Binance, piattaforma di Zhao, è partner della World Liberty Financial, e gli Emirati hanno investito 2 miliardi nella stessa. È un intreccio di interessi che rende risibile il divieto costituzionale di conflitti con potenze straniere.
Trump, che ha incassato 131 milioni dalla lobby cripto per la sua campagna, promette di fare degli Usa una “superpotenza” delle valute virtuali, sostituendo il capo della Sec con il liberista Paul Atkins. Intanto, il magnate Justin Sun, che ha speso 6,2 milioni per una banana di Cattelan, investe 75 milioni in $TRUMP, sognando di influenzare la politica americana.
Nel Golfo, Trump trova terreno fertile: plutocrazie autoritarie che condividono la sua visione post-ideologica, dove il denaro è l’unico valore e le regole sono optional. “Solo i perdenti rifiutano un regalo come il Boeing”, ha detto Trump, liquidando le critiche. E mentre la Casa Bianca diventa un cartello “vendesi”, il mondo guarda attonito un presidente che non si limita a governare, ma mercanteggia il potere come un bene qualunque.