
di Giuseppe Gagliano –
India e Pakistan, eterni rivali armati di testate nucleari, hanno siglato un cessate-il-fuoco mediato dagli Stati Uniti, annunciato ieri con squilli di tromba da Donald Trump. Una tregua che sa di miracolo, ma che poggia su fondamenta fragili, costruite in 48 ore di frenetica diplomazia guidata da Marco Rubio e James David Vance. Un successo? Forse. Ma la storia di questi due Paesi, intrecciata di sangue e sospetti, ci insegna a non festeggiare troppo presto.
Tutto è iniziato il 7 maggio, quando missili indiani hanno colpito nove siti in Pakistan uccidendo 31 persone. Nuova Delhi ha giustificato l’attacco come rappresaglia per l’attentato terroristico del 22 aprile nel Kashmir, dove 25 turisti indù e una guida hanno perso la vita. Da lì l’escalation: droni, missili, accuse reciproche di attacchi a basi militari e infrastrutture civili. L’India ha denunciato oltre 400 droni pakistani diretti verso le sue città, mentre Islamabad ha accusato l’aviazione indiana di colpire le basi di Nur Khan, Murid e Shorkot. Un copione già visto, che ha fatto temere il peggio: una quinta guerra tra i due vicini, dopo quelle del 1947, 1965, 1971 e 1999.
Poi l’intervento americano. Trump, con il suo stile da venditore di sogni, si è congratulato con entrambi i Paesi su Truth Social, parlando di “buon senso e grande intelligenza”. Rubio, più misurato, ha lodato la “saggezza” dei premier Narendra Modi e Shehbaz Sharif.
Eppure c’è qualcosa di stonato in questa narrazione trionfale. Solo due giorni prima il vicepresidente sa JD Vance aveva liquidato il conflitto come “non affar nostro”. Cosa ha spinto Washington a cambiare rotta? Forse la paura che due potenze nucleari, con arsenali capaci di incenerire milioni di vite, trasformassero il subcontinente in un campo di battaglia globale. O forse, più cinicamente, la necessità di riaffermare un ruolo di mediatore in un mondo dove la leadership americana vacilla.
Il cessate-il-fuoco, almeno sulla carta, è totale: niente più spari, niente più droni, niente più raid aerei. I capi militari dei due Paesi si sono parlati il 10 maggio e torneranno a farlo il 12. È stato promesso un tavolo di negoziati in un “luogo neutrale” per affrontare le “questioni aperte”. Ma quali? Il Kashmir, eterno nodo gordiano, non si risolve con una stretta di mano. E poi ci sono i toni di entrambe le parti, che celebrano la tregua come una vittoria: l’India vanta la sua “fermezza contro il terrorismo”, il Pakistan esalta la “dignità nazionale”. Quando ognuno canta il proprio inno, la pace rischia di diventare un intervallo tra due battaglie.
Non fraintendiamoci: il silenzio delle armi è una benedizione. Ma la pace vera richiede qualcosa di più delle parole di un presidente in cerca di riflettori o di ministri che si scambiano cortesie su X. Serve affrontare le ferite profonde: il Kashmir, i confini contesi, il terrorismo, le ambizioni di potenza. India e Pakistan, con i loro miliardi di abitanti e le loro economie in bilico, non possono permettersi di giocare alla guerra. E gli Stati Uniti, se vogliono davvero essere mediatori, devono smettere di cambiare idea ogni 48 ore.