di Enrico Oliari –
Non c’è semplicemente il carattere sopra le righe, le uscite sui generis, dietro il gesto di Donald Trump di sentire al telefono la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen. A chiamare è stata lei, Trump lo ha precisato con un tweet in cui era scritto “called me” dopo la montagna di polemiche e le prevedibili proteste di Pechino, da dove è arrivata una protesta formale contro gli Usa in cui si legge che “c’è solo un’unica Cina nel mondo e Taiwan è un’inseparabile parte del territorio cinese. Il governo della Repubblica popolare cinese è il solo legittimato a rappresentare la Cina”.
Trump, a dire il vero, potrebbe essere caduto in una trappola della presidente taiwanese, circostanza dove avrebbe giocato la mancanza di consiglieri preparati e fidati poiché ancora da nominare, tuttavia le uscite di Trump in generale sul tema Cina non lasciano preludere a rapporti idilliaci fra le due potenze.
Già in campagna elettorale Trump era stato chiaro nel manifestare le sue intenzioni di mettere dazi del 45 per cento sulle merci provenienti dalla Cina al fine di proteggere la produzione e il lavoro negli Usa, come pure aveva indicato il proposito di ridurre la presenza in oriente di navi e aerei affinché gli storici alleati, cioè il Giappone e la Corea del Nord, provvedessero da soli alla propria difesa dalla minaccia cinese, anche dotandosi di armi atomiche.
Giusto due giorni ha Trump ha augurato al presidente delle Filippine Rodrigo Duterte il “successo” della sua campagna contro la droga, per la quale squadroni della morte uccidono per strada spacciatori e trafficanti, invitandolo addirittura alla Casa Bianca. Duterte gli ha risposto garantendo di voler conservare e fortificare le relazioni con gli Usa, dopo che in settembre si era rivolto tramite i media a Barack Obama apostrofandolo “Figlio di puttana, te la farò pagare”, e che in più occasioni aveva manifestato l’intenzione di rompere le relazioni con gli Usa; Duterte in ottobre si è recato a Pechino, ma la tradizionale inimicizia tra i due paesi anche per l’annosa questione delle isole contese non si è sopita ne’ con quel viaggio, ne’ con la decisione a luglio del Tribunale del Mare che attribuiva a Manila la sovranità sulle isole. Per la Cina c’è quindi ora il rischio che Trump torni a considerare le Filippine come una roccaforte Usa nell’area, un ostacolo alle mire egemoniche di Pechino nell’area.
Anche le aperture di Trump alla Russia di Vladimir Putin potrebbero essere malviste dalla Cina in quanto proprio le difficoltà con l’occidente avevano costretto il leader russo a guardare a oriente, sia per i rapporti strategici che per quelli commerciali.
Il futuro delle relazioni fra le due potenze, Usa e Cina, è insomma incerto: la politica di Trump appare contrapposta a quella di Barak Obama, che aveva impiegato energia e tempo per ricucire i rapporti, freddi da sempre.