
di Giuseppe Gagliano –
C’è un nome che nell’ombra ha guidato i destini della Turchia per oltre un decennio e che oggi si trova sotto i riflettori della politica estera: Hakan Fidan. Una figura enigmatica, ex capo dell’intelligence e ora ministro degli Esteri, che porta con sé il peso dei dossier più segreti dello Stato turco. Se Recep Tayyip Erdogan ha scolpito l’immagine della Turchia moderna con il pugno di ferro, Fidan ne è stato il custode silenzioso, il gran burattinaio dei servizi segreti e delle strategie più oscure. Ma il salto dal mondo degli 007 alla diplomazia internazionale lo trasformerà in un successore credibile, o resterà un uomo di ghiaccio dietro le quinte?
Nel giugno 2023, quando Erdogan lo ha designato a capo della diplomazia turca, la notizia ha lasciato un brivido nell’establishment. Non era solo la promozione di un leale servitore, ma la proiezione sul palcoscenico globale di un uomo che conosce ogni segreto dello Stato turco. E non si tratta di semplici affari interni. Fidan ha avuto tra le mani i dossier sulle operazioni in Siria, le trattative con l’occidente, i legami con i gruppi armati e gli equilibri di potere con Russia e Iran.
La sua carriera è stata un susseguirsi di mosse strategiche dietro le quinte: laureato in Scienze Politiche all’Università del Maryland, con un dottorato alla Bilkent di Istanbul, ha servito nella Nato prima di diventare il principale consigliere di sicurezza di Erdogan. Nel 2010 la sua nomina a capo del MIT (Millî Istihbarat Teşkilatı, il servizio segreto turco) ha segnato la svolta. Fidan è stato l’architetto dell’espansione turca in Siria, della repressione interna dopo il fallito golpe del 2016 e dell’uso chirurgico dell’intelligence per rafforzare la postura neo-ottomana di Ankara.
Se c’è un campo di battaglia dove Fidan ha mostrato il suo genio strategico, quello è la Siria. La caduta del regime di Bashar al-Assad nel dicembre 2024, precipitata da un’insurrezione orchestrata in gran parte da Ankara, è stata un’operazione che porta il suo marchio. Non un intervento diretto, ma un gioco di scacchi perfetto: armi ai ribelli, addestramento sul campo, pressione diplomatica su Mosca e Teheran. Il tutto mentre la Turchia si consolidava come garante della stabilità regionale agli occhi degli Stati Uniti e di alcuni paesi arabi.
Il capolavoro di Fidan è stato il modo in cui ha neutralizzato i due grandi alleati di al-Assad: Russia e Iran. Con Vladimir Putin ha giocato la carta dell’energia e della cooperazione militare, mentre con Teheran ha sfruttato la debolezza economica e l’isolamento crescente del regime khomeinista. La Turchia, formalmente parte della Nato, ha saputo muoversi con abilità tra Washington e Mosca, evitando scontri diretti ma raccogliendo i frutti di un’instabilità che ha saputo manipolare a proprio vantaggio.
Il Medio Oriente non è l’unico scenario in cui Fidan sta costruendo la sua eredità. Se la Siria è stata il suo test sul campo, l’Europa e l’Asia Centrale sono i prossimi obiettivi. Il ministro degli Esteri turco sa che la partita non si gioca solo sul piano militare, ma anche su quello economico e culturale.
Da un lato il rapporto con l’Unione Europea resta un nodo irrisolto. La Turchia ha ricevuto quasi 10 miliardi di euro per gestire i flussi migratori e trattiene milioni di rifugiati siriani sul proprio territorio, una leva che Ankara usa per ricattare Bruxelles. La prospettiva di un’integrazione europea è lontana, ma Fidan sa che mantenere aperto quel canale significa esercitare pressione e ottenere concessioni.
Dall’altro lato il piano più ambizioso riguarda l’Asia: il Caucaso, l’Asia Centrale e persino la Cina. La Turchia vuole posizionarsi come leader del mondo turcofono, con un’influenza crescente tra le repubbliche ex sovietiche. La recente apertura diplomatica verso i paesi del Golfo e i nuovi investimenti in Africa fanno parte dello stesso disegno espansionistico.
L’interrogativo finale resta: Hakan Fidan è il delfino designato di Erdogan? La storia della Turchia recente è piena di figure che il presidente ha promosso e poi scaricato. Ahmet Davutoglu, Berat Albayrak, Egemen Bagış: tutti sembravano i favoriti, tutti sono stati messi da parte.
Fidan però ha una differenza cruciale: non è un politico, è un burocrate del potere. Non ha mai cercato il consenso popolare, non ha mai parlato alle folle. È un uomo d’ordine, un calcolatore, un operatore silenzioso. La sua lealtà a Erdogan è fuori discussione, ma basterà questo a garantirgli la leadership?
Oggi la Turchia si trova in una fase di transizione. Erdogan non è eterno e il giorno in cui lascerà il potere, chi prenderà le redini dovrà affrontare sfide enormi: la stabilità interna, la crescita economica, la posizione globale del paese. Hakan Fidan, con la sua rete di alleanze segrete e il suo controllo sull’apparato dello Stato, potrebbe essere la figura giusta. Ma dovrà dimostrare di poter parlare non solo ai potenti, ma anche al popolo. E questo, per ora, resta il suo più grande limite.
La voce di Fidan si è sempre sentita nei corridoi del potere. Ma la politica è un’altra cosa. Saprà uscire dall’ombra e diventare davvero il nuovo “rais” della Turchia?