Turchia: per l’Ue due pesi e due misure

di Dario Rivolta *

Dà conforto sentire tanti governi, in primis noi europei e gli occidentali in genere, esprimere la volontà di affermare l’importanza di valori quali la democrazia, il diritto internazionale, i diritti umani, il rispetto della pluralità delle opinioni, l’autodeterminazione dei popoli e così via. Purtroppo poi, di là dalle stentoree dichiarazioni, tutti dobbiamo fare i conti con la realtà e soprattutto con i nostri veri interessi. Allora si tiene aperto Guantanamo purché fuori dal territorio metropolitano, si bombarda la Serbia senza un mandato dell’ONU, si critica la Russia per Navalny, ma ci si dimentica presto dell’assassinio di Kashoggi, fatto a pezzi in un consolato saudita in Turchia, si attesta che Kossovo sì ma Crimea no, e magari diciamo pure che Erdogan è davvero un dittatore ma con lui dobbiamo dialogare.
Non c’è da scandalizzarsi se spesso siamo costretti ad applicare una doppia morale: sono i casi della vita! E un po’ di ipocrisia non ha mai ammazzato nessuno. O quasi.

Se proprio vogliamo fare i pignoli, il caso dei rapporti con la Turchia è oggi probabilmente il più eclatante: sostegno a gruppi terroristici, eliminazione di giornalisti scomodi, imprigionamento di parlamentari in carica in barba all’immunità parlamentare, corruzione diffusa gestita dagli uomini al potere, intolleranza religiosa e via di questo passo. Tuttavia, almeno fino a poco fa, era ancora possibile che il popolo facesse sentire la propria voce attraverso democratiche (un po’) elezioni e i diversi partiti potevano concorrere alla conquista di un nuovo potere. Chissà se sarà così anche per le prossime consultazioni.
La notizia più recente è che lunedì 21 giugno la Corte Costituzionale di Ankara ha accettato la richiesta del Procuratore Capo della Corte d’Appello, Bekir Sahin, di sottoporre a giudizio l’ipotesi che il Partito curdo HDP (Partito Democratico dei Popoli) sia messo fuori legge e che nessuno dei suoi dirigenti possa più presentarsi a una elezione per i prossimi cinque anni. Questo partito, sostenuto principalmente dalla popolazione curda ma non solo, è il terzo partito del Paese come consensi e alle ultime votazioni; nonostante intimidazioni e aggressioni ha raccolto più di sei milioni di voti, cioè circa il dieci per cento del corpo elettorale. L’accusa sarebbe di violare gli articoli 68 e 69 della Costituzione e cioè di voler “distruggere l’unità dello Stato”. Le critiche politiche ad esso indirizzate dagli esponenti del governo e dallo stesso Recep Tayyp Erdogan sarebbero di essere fiancheggiatori del gruppo secessionista PKK (cosa smentita risolutamente dagli interessati e mai provata) e con questa accusa il suo massimo dirigente Selahattin Demirtas è carcerato dal 2016 nonostante fosse un parlamentare eletto. In base alle accuse aperte contro di lui corre il rischio di dover scontare ben 142 anni di carcere. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ne ha chiesto più volte la liberazione, ma ad Ankara nessuno se l’è filata. Attualmente se la Corte Suprema turca decidesse per la messa fuori legge del Partito i nuovi condannati sarebbero i 451 suoi maggiori esponenti. Naturalmente le forme giuridiche saranno formalmente rispettate e l’HDP ha il diritto di sottoporre al Procuratore le proprie obiezioni entro 60 giorni che, a sua volta obietterà presso la Corte Costituzionale. La decisione finale per la possibile chiusura del partito politico dovrà essere approvata da almeno 10 dei 15 componenti la Corte. Il problema è che non è un segreto che il potere giudiziario sia stato spesso utilizzato come strumento per ridurre al silenzio a vari livelli i dissidenti. Tuttavia nel corso dell’intera storia della Repubblica di Turchia la situazione non è mai stati così grave e avvilente. Al 15 luglio 2016, giorno del tentato colpo di Stato, in Turchia si contavano circa 14.500 giudici e pubblici ministeri. Di questi 4560 sono stati rimossi dal servizio nel giro di poche settimane. Attualmente i giudici e i magistrati sono circa 21mila. Ciò significa che in un arco di tempo di quattro anni, spianata la strada attraverso il licenziamento e l’incarcerazione di migliaia di magistrati e l’intimidazione di quelli rimanenti, il governo Erdogan ha assunto 11mila nuovi magistrati “accreditati”. Attualmente in Turchia oltre 50mila persone sono incarcerate per azioni non violente, per aver tentato di esercitare la propria libertà di espressione o semplicemente per essere state etichettate come dissidenti. Sarà al di sopra delle parti il giudizio della Corte Costituzionale? I precedenti non lasciano speranze.
Tutti quelli enunciati sono fatti ampiamente noti in tutta Europa e riferiti frequentemente da vari organi di stampa. Perché allora anche il recente Consiglio dei ministri europei ha ribadito la volontà di continuare a dialogare positivamente con la Turchia?

La risposta sta in quanto scritto all’inizio di questo articolo: una cosa sono le buone intenzioni e un’altra gli interessi. Erdogan ha forti poteri negoziali sia nei confronti dell’Europa che degli USA. Nonostante i molti “sgarbi” fatti alla NATO e ad alcuni dei Paesi europei (vedi Francia, Cipro, Grecia, Italia-Eni), nessuno può accettare l’idea che la Turchia si avvicini più di tanto al blocco Russia-Cina. Tutti sanno che questa ipotesi è altamente improbabile poiché Erdogan ha un maggiore interesse a rimanere a cavallo tra i due blocchi rivali traendo il massimo beneficio da entrambi, ma nessuno se la sente di correre il rischio. Ben sapendo di essere la destinazione preferita di quei milioni di diseredati che espulsi dalla Turchia si precipiterebbero ai confini europei, chi più di tutti in Europa è interessato a mantenere e confermare i buoni rapporti con Ankara è proprio la Germania. Senza contare i milioni di turchi che già ci vivono e che non hanno affatto reciso, per volontà o per obbligo, i propri legami con la madre patria. Anche l’Italia, grazie al fatto di essere il secondo esportatore europeo verso la Turchia (il primo è la Germania) non ha alcuna voglia di veder penalizzate le proprie industrie. E che dire del fatto che il Paese anatolico sia diventato un hub gasifero che rappresenta una via di rifornimenti alternativo al gas russo? Perfino Macron, che in un primo momento aveva visto peggiorare i propri rapporti personali con Erdogan dopo gli attentati terroristici subiti in Francia e le sue dichiarazioni sul terrorismo islamico, ha dichiarato che Parigi ed Ankara vanno d’accordo e continueranno a lavorare insieme in merito ai conflitti in corso in Libia ed in Siria. Biden, pur avendo lanciato la nuova parola d’ordine della lotta dei “Paesi e valori democratici contro tutti gli autoritarismi “e avendo dichiarato quale “avvertimento” che contro gli armeni si era perpetrato un genocidio, dopo aver incontrato Erdogan a Bruxelles si è detto “fiducioso che noi otterremo dei veri progressi con la Turchia”. La questione del “genocidio” non è nemmeno stata considerata nel loro incontro a due.
Per completare il quadro, il Consiglio dei ministri europeo ha deciso che i sei miliardi di euro già regalati ad Erdogan per la gestione dei profughi non sono più sufficienti e altri sei miliardi saranno erogati prossimamente. Di sanzioni, tipo quelle di cui siamo così generosi con altri Paesi, non si è parlato.
In barba a tutti i “valori” che, a parole, difendiamo.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.