
di Giuseppe Lai –
L’arresto di alcuni giorni fa di Ekrem Imamoglu, il principale oppositore politico del presidente turco Erdogan, è solo l’ultimo di una lunga serie di atti repressivi compiuti dal governo contro attivisti, dissidenti e avversari. Rispetto agli arresti eccellenti compiuti in passato, Erdogan ha mostrato notevole determinazione nel perseguire uno degli esponenti di spicco del Partito Repubblicano del Popolo (Chp), il più antico partito turco che fu di Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della moderna repubblica di Turchia. Un episodio che al pari di quelli precedenti testimonia la fragilità e la complessità delle istituzioni repubblicane del Paese sin dalle origini. Nata dalle ceneri dell’Impero ottomano, la Repubblica di Turchia vide la sua proclamazione ufficiale nell’ottobre 1923 dopo una lunga guerra di liberazione (1919-1923) nella quale le forze nazionaliste guidate da Mustafa Kemal si opposero sia al governo del Sultano sia alla presenza straniera greca e britannica, rispettivamente nella regione egea e nella capitale imperiale Istanbul.
A fondamento della Repubblica, nell’aprile del 1924 la Grande Assemblea Nazionale insediatasi ad Ankara approvò la Costituzione, ispirata ai principi del costituzionalismo liberale di stampo occidentale. Un impianto normativo che intendeva promuovere una identità nazionale turca che prendesse le distanze da quella ottomana, multietnica e pluriconfessionale, e che riconosceva all’art.2 il credo islamico-sunnita come unica religione di stato. Nonostante con la successiva abrogazione dell’art. 2 si aprisse la strada ad altre confessioni religiose e alla costituzionalizzazione, nel 1937, del principio di laicità, il dettato costituzionale dava adito a interpretazioni che di fatto privilegiavano il credo sunnita. Infatti erano disconosciuti i diritti di minoranze religiose come quella alevita e di gruppi etnici come i curdi. Inoltre, non era prevista una reale distinzione fra le cariche istituzionali e quelle dell’unico partito ufficiale, il Partito Repubblicano del Popolo (Cumhuriyet Halk Partisi – CHP) espressione dell’ideologia kemalista. L’iter costituente proseguì nel 1961 con l’approvazione di una nuova Costituzione che introdusse il concetto di stato di diritto, con la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario e l’apertura verso una democrazia pluralista e liberale. Ma fu proprio il nuovo assetto istituzionale a favorire l’emergere sulla scena politica di vari gruppi di opposizione che aprirono la strada a una instabilità di lungo periodo. In risposta, le autorità rafforzarono il potere esecutivo rispetto al legislativo, con la limitazione dei diritti in nome dell’ordine pubblico e dell’interesse nazionale. L’esercito, posto a garanzia delle prerogative costituzionali, al fine di contrastare i frequenti disordini fu il promotore nel 1980 di un colpo di stato e due anni dopo i militari golpisti promulgarono una nuova costituzione, attualmente in vigore. Essa tuttavia, come già accaduto nelle norme precedenti sarà sottoposta a successive modifiche normative ed emendamenti, prima nel 2007 e poi nel 2017, con la riforma che ha condotto ad una forma peculiare di presidenzialismo.
Il modello presidenziale turco si caratterizzava per l’assenza di una separazione dei poteri e prevedeva un netto accentramento delle facoltà decisionali nelle mani del Presidente rispetto a tutte le altre istituzioni. Tra i poteri in capo al presidente quello di emettere decreti che acquisivano forza di legge senza bisogno né di una previa autorizzazione dell’Assemblea parlamentare né di una successiva conversione in legge. La riforma, inoltre, consentiva al Presidente di mantenere il doppio incarico di capo del partito e di leader istituzionale. Questo lungo percorso, definibile come laboratorio costituzionale in perenne evoluzione, delinea alcuni tratti distintivi della storia politico-istituzionale della Turchia. Il caso turco rappresenta l’unicità di una democrazia formale che non si è tradotta nel Paese nella tutela dei diritti delle minoranze religiose ed etniche, delle diversità e della libertà di espressione, principi ispiratori del kemalismo di Ataturk. I processi costituenti sono stati sempre guidati “dall’alto”, cioè dalla leadership al potere che ha dato priorità alla difesa dei diritti della Nazione in quanto tale a scapito dei diritti dei singoli. La partecipazione attiva dei cittadini si è espressa unicamente nei referendum popolari, sempre confermativi, indetti appunto per confermare le varie opzioni legislative mentre non era consentita la possibilità di opporsi ai testi normativi via via promulgati. Il deficit strutturale di legittimazione popolare è solo uno dei fattori alla base dell’instabilità politica che ha contraddistinto la storia del Paese dalla nascita della Repubblica. Dalla sua fondazione, la cosiddetta laicità kemalista che ha caratterizzato gli impianti costituzionali si è rivelata incompiuta in primis sul piano religioso. L’islam sunnita è stata di fatto la religione di stato che ha da sempre permeato le istituzioni, creando i presupposti di un laicismo ambiguo senza una reale distinzione tra Stato e religione, uno dei capisaldi di un ordinamento statale laico. I principi liberali occidentali propugnati dal kemalismo sono stati incorporati nell’architettura dello Stato ma non sono stati recepiti dalla società turca, profondamente confessionale. Ataturk ha guidato la società verso l’esaltazione di ideali laici e liberali per stimolare un sentimento di identità, di appartenenza nei confronti di una nazione appena nata. Ma tali valori sono risultati storicamente estranei alla società, costituendo una sorta di alienazione che richiama alla mente le parole dello psicanalista Jaques Lacan, ovvero che “l’immaginario collettivo è una creazione alienante che alla fine schiavizza le persone”. Questa dissonanza di fondo tra principi laici e realtà civile e religiosa è stata probabilmente il fattore principale dell’instabilità politica, che riemergeva ogni qualvolta si tentasse di rafforzare la democraticità interna del Paese.
Una instabilità che le autorità al potere hanno sempre tentato di arginare con riforme istituzionali orientate in senso autoritario e con l’uso della forza militare. Negli anni ’80, proprio su iniziativa dell’esercito al potere, prese avvio la cosiddetta “sintesi turco-islamica”, un progetto politico che univa i tratti nazionalisti di tradizione kemalista alla fede islamica e che si proponeva di sperimentare una conciliazione con la componente religiosa. Questa nuova fase ha permesso a partiti sempre più conservatori e tradizionalisti di ottenere il consenso popolare ed è in questo contesto che ha mosso i suoi primi passi politici l’attuale presidente turco Tayyip Recep Erdoğan. Il maggior successo di Erdogan, al governo da più di un ventennio, è stato quello di essersi inserito abilmente in un contesto istituzionale, politico e sociale incline a rafforzare il potere di una personalità singola. Egli ha compreso che l’inclusione religiosa era un formidabile strumento di consenso, che avrebbe ottenuto dalla maggior parte del ceto medio e da una società tradizionalista fino a quel momento esclusi dal paese ufficiale. Uomo solo al comando, Erdogan ha tuttavia impresso al Paese una decisa svolta autoritaria, complice la riforma presidenzialista del 2017 che gli ha conferito enormi poteri, con l’effetto di destabilizzare un ordine democratico che i kemalisti classici perseguono da circa un secolo. E’ in questo quadro di crescente polarizzazione sociale che si colloca l’arresto di Ekrem Imamoglu, candidato dal Partito Repubblicano del Popolo alle prossime elezioni presidenziali del 2028. Il primo cittadino di Istanbul è considerato un candidato che può unire elettori laici e islamici, mostrando ammirazione per il fondatore della Repubblica, laico e nazionalista, Kemal Ataturk ma recitando al tempo stesso versetti del Corano in pubblico. Il suo arresto rappresenta l’ennesimo tentativo di ostacolare il percorso evolutivo di una democrazia formale verso una identità politica realmente inclusiva e partecipativa.