Ucraina. Il caos di Trump in vista dei colloqui di Istanbul

di Giuseppe Gagliano

Dopo anni di slogan bellicosi, promesse d’ingresso e vertici infruttuosi, l’amministrazione statunitense (o almeno la sua ala trumpiana) sembra riconoscere pubblicamente ciò che la Russia afferma da oltre due decenni: l’allargamento della NATO verso est è una provocazione geopolitica insostenibile. Keith Kellogg, consigliere chiave per le questioni ucraine del team Trump, ha dichiarato in un’intervista alla ABC che le richieste russe di interrompere l’espansione dell’Alleanza sono “legittime”, ponendo così un altolà formale all’adesione di Ucraina, Georgia e Moldavia.
È una svolta che affonda le radici nel vertice di Bucarest del 2008, quando l’occidente spalancò le porte dell’Alleanza a Kiev e Tbilisi, sottovalutando però le reazioni di Mosca. Un errore strategico divenuto incubatore del conflitto odierno. La posizione attuale, se confermata, rappresenta la prima vera rottura ufficiale con la logica espansionista dell’unipolarismo americano.
Lo scenario ucraino, più che teatro di una contesa autonoma, appare sempre più come un campo di battaglia delegato. Il governo di Kiev, svuotato di forze realmente nazionaliste e divenuto emanazione degli interessi occidentali, ha giocato il ruolo di esecutore zelante di strategie altrui. La pace, lo dice chiaramente Mosca, non potrà arrivare se non attraverso un accordo globale che riveda le logiche di dominio unilaterale imposte da Washington a partire dal crollo dell’URSS.
Il conflitto ucraino non è dunque solo guerra di territori, ma soprattutto conflitto di visioni del mondo: da una parte, l’egemonia americana, oggi più fragile; dall’altra la volontà russa di sopravvivere come potenza e quella cinese di agire da contrappeso planetario. Le pressioni su Georgia e Moldavia ne sono l’eco.
È in questo quadro che si colloca l’appuntamento di domani a Istanbul, summit dai contorni ancora incerti e già minacciato da giochetti diplomatici. L’Ucraina ha tentato di bloccarlo con il pretesto che Mosca non avrebbe fornito un memorandum delle sue richieste, dimenticando forse che i veri negoziati si fanno in silenzio, lontano dai riflettori e dalle strumentalizzazioni mediatiche.
Il Cremlino dal canto suo ha ribadito che esporrà le sue condizioni in sede opportuna, segnalando la volontà di non sabotare l’incontro. Segnali di buona volontà, che contrastano con il clima di provocazione alimentato da Washington, Berlino e da parte dei “volenterosi” europei.
Non sorprende che in concomitanza con questa fragile apertura diplomatica siano piombati a Kiev due volti noti del falchismo americano: i senatori Lindsey Graham e Richard Blumenthal. La loro missione? Impedire che Volodymyr Zelensky ceda alle pressioni del fronte negoziale, ricordandogli che l’Impero non si smobilita facilmente.
Portano in dote un disegno di legge che prevede dazi fino al 500% verso i Paesi che acquistano beni russi: una minaccia frontale all’eventuale distensione voluta da Trump. Una mossa per blindare l’economia di guerra e sabotare, sul nascere, ogni tentativo di normalizzazione.
Ma se Donald Trump da un lato mostra aperture verso Mosca, dall’altro non ha ancora una linea chiara. Critica Zelensky, accusandolo di ostinazione nei negoziati, ma allo stesso tempo attacca Putin, definendolo “impazzito”. In realtà paga il prezzo di una narrativa semplificata, da sceriffo del West, secondo cui il conflitto si sarebbe potuto chiudere in una manciata di giorni. Una promessa irrealistica che ora si ritorce contro di lui, facendolo apparire debole agli occhi dei suoi sostenitori e dei suoi avversari.
Il rischio è che l’assenza di risultati concreti porti a un ripiegamento strategico dell’amministrazione Trump, che potrebbe cedere alle pressioni neocon e tornare sui binari dell’interventismo, mascherato da difesa dell’ordine liberale.
Al di là delle dichiarazioni e dei summit annunciati, la vera partita si gioca sul piano strategico, tra chi vuole prolungare lo scontro a oltranza per logorare la Russia, e chi per convenienza o lucidità intravede nella trattativa l’unica via d’uscita. La fine dell’espansione NATO è un segnale importante, ma fragile. Perché la pace, per essere reale, ha bisogno di attori coerenti. E al momento, di coerenza se ne vede ben poca.