Ucraina. La Nato, la guerra, le preoccupazioni russe e il campo di battaglia

di Riccardo Renzi

Nel frastuono della guerra in Ucraina, tra proclami, smentite e diplomazie affannate, emerge una questione che attraversa decenni di storia europea: la legittimità delle “preoccupazioni” della Russia di fronte all’espansione della Nato verso i suoi confini. A riaccendere il dibattito non sono solo le bombe, ma anche parole inaspettate. Keith Kellogg, generale americano ed ex consigliere per la sicurezza nazionale sotto Donald Trump, ha recentemente affermato che l’opposizione di Mosca all’ingresso dell’Ucraina nella Nato è “una preoccupazione legittima”. Un’ammissione tardiva certo, ma pesante, che solleva interrogativi su promesse disattese, strategie fallite e nuovi scenari di guerra che includono non solo carri armati e artiglieria, ma anche droni autonomi e conflitti intra-alleati.
Molti analisti tendono a liquidare le rimostranze russe come retorica imperiale o paranoia sovranica. Eppure, il nodo centrale del contendere è radicato in un momento cruciale della storia europea contemporanea: la riunificazione tedesca del 1990. In quell’occasione, rappresentanti di alto livello degli Stati Uniti e della Germania, tra cui James Baker e Hans-Dietrich Genscher, assicurarono verbalmente a Michail Gorbaciov che la NATO non si sarebbe espansa “di un pollice” verso est. Nessun documento firmato, certo. Ma le trascrizioni e gli appunti degli incontri diplomatici, oggi declassificati, raccontano una storia diversa da quella ripetuta nei think tank occidentali.
La Russia, allora ancora Unione Sovietica, acconsentì alla riunificazione della Germania all’interno dell’alleanza atlantica sulla base di queste rassicurazioni. In cambio ricevette ben poco: nessuna integrazione nella nuova architettura europea, nessuna garanzia legale vincolante. Quando l’Urss si dissolse, l’occidente colse l’occasione per spingersi verso est, inglobando l’ex Patto di Varsavia e, successivamente, molte ex repubbliche sovietiche.
Mosca ha tracciato da tempo le sue linee rosse. Nel dicembre 2021, settimane prima dell’inizio della guerra, la Russia presentò all’Occidente una proposta di garanzie di sicurezza, richiedendo l’impegno formale a non estendere ulteriormente la Nato. La risposta? Un rifiuto netto, accompagnato da dichiarazioni pubbliche minimizzanti. Lo stesso tono sprezzante che ha preceduto lo scoppio delle ostilità in Georgia nel 2008 e l’annessione della Crimea nel 2014.
L’invasione dell’Ucraina non è nata in un vuoto geopolitico, ma come risultato di una progressiva erosione della fiducia strategica. Il dibattito non riguarda l’etica della guerra, ma la prevedibilità delle sue origini. Quando Mosca avverte che l’espansione dell’Alleanza è percepita come minaccia esistenziale, non si tratta solo di narrativa autoritaria: è la visione di un sistema politico convinto che l’occidente abbia sistematicamente disatteso le sue promesse.
In questo contesto la Nato appare meno coesa di quanto proclami. Le recenti affermazioni del nuovo leader tedesco Friedrich Merz, che ha suggerito un allentamento delle restrizioni all’uso delle armi a lungo raggio fornite a Kiev, hanno provocato un immediato dietrofront da parte della coalizione di governo tedesca, che ha smentito ogni cambiamento formale. L’incidente è solo l’ultimo di una serie di segnali di disallineamento tra gli alleati occidentali, divisi tra sostegno incondizionato all’Ucraina e timori di escalation diretta con la Russia. Gli Stati Uniti hanno concesso l’uso degli ATACMS per colpire obiettivi militari in Russia, ma solo in aree vicine al fronte, mentre Londra ha dato il via libera agli Storm Shadow. Parigi per ora resta in silenzio. La Germania invece è riluttante a fornire i propri missili Taurus, i più potenti dell’arsenale europeo convenzionale. Dietro i giochi di parole diplomatici, si cela una realtà più amara: i “volenterosi” sono divisi, incerti e, in molti casi, impreparati.
Nel frattempo, il conflitto in Ucraina si evolve, segnando una nuova era della guerra tecnologica. I droni di piccole dimensioni sono oggi protagonisti incontrastati. Leggeri, economici, letali. Fonti ucraine riferiscono che il 30% di essi venga abbattuto da fuoco amico, vittime del panico indotto dal ronzio meccanico che annuncia attacchi letali. I soldati, nel dubbio, jammando qualsiasi segnale, preferiscono colpire alla cieca, senza neppure verificare se si tratti di velivoli amici o nemici. I bunker non sono più rifugi sicuri: rilevati tramite sensori termici, vengono penetrati e distrutti. Per contrastare la minaccia, i soldati rivestono le strutture con materiali termoisolanti o indossano mantelli che riducono la firma termica. Anche i mezzi corazzati, bersagli privilegiati, vengono utilizzati solo per il trasporto e ritirati immediatamente dalla linea del fronte. In risposta a questa nuova dinamica, anche gli Stati Uniti stanno riconfigurando la propria strategia: meno grandi droni da ricognizione, più sciami di UAV letali, economici e difficili da contrastare. L’orizzonte prossimo venturo ci mostra un campo di battaglia dove l’intelligenza artificiale guiderà stormi autonomi, rendendo sempre più labile la distinzione tra umano e macchina, amico e nemico.
A rendere ancora più inquietante lo scenario la notizia, tutta da confermare, secondo cui l’elicottero presidenziale di Vladimir Putin sarebbe stato preso di mira da una quarantina di droni durante una visita nella regione di Kursk, recentemente riconquistata dalle forze russe. Secondo il generale Yuri Dashkin, l’elicottero si è trovato “nell’epicentro di un attacco massiccio”, che sarebbe stato respinto grazie alla difesa aerea. La tempistica è dubbia (la visita sarebbe avvenuta il 20 maggio, ma comunicata alla stampa il giorno successivo) e la fonte è russa. Tuttavia, se anche solo parzialmente vera, la notizia indica un significativo mutamento dell’equilibrio strategico. Anche lo “zar” non è più immune alla guerra dei droni. E se la deterrenza tradizionale fallisce, il rischio di escalation asimmetrica cresce esponenzialmente.
Ciò che emerge con chiarezza da questo mosaico di eventi è che la guerra in Ucraina ha infranto non solo un ordine politico, ma anche il patto, tacito o scritto, su cui si fondava l’equilibrio post-Guerra Fredda. La sicurezza europea, una volta gestita attraverso negoziati e alleanze, oggi si regge su sistemi d’arma automatizzati, alleanze traballanti e promesse dimenticate. L’”ordine basato sulle regole” che l’occidente ha difeso a parole si è dimostrato incapace di reggere l’urto della realtà. La Russia, con la brutalità che la caratterizza, ha demolito le illusioni strategiche dei suoi avversari. La Nato, ferita ma ancora viva, si interroga sul proprio futuro. E il campo di battaglia, sempre più tecnologico e disumanizzato, prefigura un mondo dove la pace non sarà garantita da trattati, ma forse solo da algoritmi.