Ue. Intelligence unica: Denécé, ‘un’utopia senza un’unione politica reale’

a cura di Giuseppe Gagliano

Sempre più spesso ricorre nei palazzi europei l’idea di un servizio di intelligence esterno unico, ma per quanto la cosa appare appetibile per i piccoli paesi membri, grandi nazioni come Italia e Francia spingono per un approccio più realistico: per Eric Denécé, esperto di intelligence e economia, nonché direttore del Centro francese di Ricerca sull’intelligence (CF2R), “fino a quando non ci sarà una politica europea unica che sostituisca quella di ciascuno Stato membro, non ci sarà un servizio europeo di intelligence estera”.

– Perché la il governo francese ritiene che un servizio di intelligence europeo centralizzato potrebbe compromettere la sovranità nazionale e la sicurezza interna della Francia?
“Tutti i principali Paesi europei sono contrari alla creazione di un unico servizio di intelligence esterno. È un’idea che viene o da chi non sa nulla di intelligence, o da piccoli Paesi (i Paesi baltici in particolare) le cui dimensioni di superficie e popolazione non sono nemmeno equivalenti a una regione come quella italiana o francese. Francamente non è una cosa seria, perché l’intelligence estera è l’ultima cosa che verrà messa in comune se si vuole che nasca un’Europa politica.
Finché non ci sarà un governo europeo e non ci sarà una politica europea unica che sostituisca quella di ciascuno Stato membro, non ci sarà un servizio europeo di intelligence estera.
Infatti questo tipo di servizio è il braccio armato della politica estera di ogni Stato e risponde quindi alla difesa dei propri interessi nel mondo. Tuttavia, non tutti gli Stati membri dell’UE hanno la stessa politica internazionale e spesso sono ancora in competizione o addirittura in rivalità tra loro nel mondo (per la conquista dei mercati, l’influenza politica e culturale, ecc.) A titolo di esempio, l’Italia e la Francia, pur essendo molto vicine in termini di cultura e storia, sono in competizione su mercati come l’Algeria e la Libia. Quindi i nostri interessi sono ancora divergenti. Quindi Roma e Parigi hanno bisogno di un servizio di intelligence per raggiungere i loro obiettivi internazionali”
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– Quali sono le preoccupazioni in Francia per la condivisione di informazioni sensibili con un servizio di intelligence sovranazionale a livello europeo?
“Penso che coloro che sostengono un servizio di intelligence europeo stiano commettendo un errore. Non è di un servizio di intelligence esterno che l’Unione ha bisogno. Anche se dovessimo creare qualcosa, sarebbe più opportuno iniziare a pensare a un servizio di sicurezza comune (del tipo AISI o DGSI), che sarebbe il più facile da realizzare, perché la stragrande maggioranza delle minacce esterne sono comuni ai nostri Stati (terrorismo, sovversione, criminalità, immigrazione, ecc.). In secondo luogo, sarebbe anche più facile progettare un servizio di intelligence militare comune, perché sempre più operazioni si svolgono in un quadro europeo.
Ma nel primo caso la cooperazione funziona bene e abbiamo Europol ed Eurojust. Nel secondo caso, abbiamo già il Centro di situazione (SITCEN) e il Centro satellitare dell’Unione europea (EUSC, a Torrejon, Spagna).
Tra l’altro abbiamo già avuto grosse difficoltà a far collaborare i servizi segreti militari italiani, francesi e tedeschi nel fornire immagini all’EUSC, che finisce per acquistare tutte le immagini di cui ha bisogno da fornitori di servizi privati europei, americani e giapponesi”
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– In che modo le differenze giuridiche e culturali tra i sistemi nazionali di intelligence in Europa potrebbero ostacolare l’efficacia di un servizio centralizzato, secondo gli esperti francesi?
“Credo che questo sia un falso problema. Se un giorno verrà creato un servizio europeo, questo avrà la sua cultura e le sue regole giuridiche, che non saranno quelle di nessuno Stato ma quelle definite dall’autorità politica per conto della quale questo servizio agirà. Di conseguenza, potranno partecipare operatori di diversi Paesi dell’UE e questo servizio sarà un nuovo Melting Pot.
Ma ancora una volta, ricordo che finché non ci sarà un governo europeo e non ci sarà una politica europea unica che sostituisca quella di ciascuno Stato membro, non ci sarà un servizio europeo di intelligence esterna”
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– Quali rischi di sicurezza informatica e di infiltrazione percepisce la Francia nella creazione di un’agenzia di intelligence europea unificata?
“Non sono i rischi di sicurezza informatica e di infiltrazione a preoccupare la Francia nell’ipotetica prospettiva di un servizio di intelligence comune: sono la perdita di sovranità, da un lato, e il timore che i suoi interessi internazionali non siano più difesi, dall’altro.
Ad esempio, vent’anni fa è stato raggiunto un accordo tra Francia (DGSE) e Germania (BND) sul monitoraggio dei rischi internazionali. La DGSE monitorava in particolare i rischi terroristici provenienti dal Maghreb, mentre il BND esaminava la situazione nell’Europa orientale e in Russia. Entrambi i Paesi dovevano fornire all’altro le informazioni ottenute. Il risultato è stato inconcludente, perché i tedeschi non si sentivano preoccupati dalla minaccia proveniente dal Nord Africa… e i francesi hanno ridotto notevolmente le loro risorse di raccolta in Europa orientale, affidandosi ai tedeschi, anche se quest’area riguarda anche la nostra sicurezza. Ci siamo quindi trovati in parte ridimensionati durante gli eventi del 2014”
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– In che modo la centralizzazione dei servizi di intelligence potrebbe ridurre la capacità della Francia di reagire rapidamente alle minacce specifiche del suo territorio?
“Per il semplice fatto che i leader politici europei arrivano a considerare che le minacce all’integrità territoriale della Francia, ai suoi interessi o ai suoi cittadini non sono una priorità e concentrano la loro attenzione su altri argomenti o altre questioni… Oggi possiamo constatare che la Polonia, gli Stati baltici e la Germania sono molto più concentrati sulla minaccia russa che sulle minacce poste dall’immigrazione o dal terrorismo, che sono molto più pericolose per l’Italia e la Francia”.

– Gli esperti francesi ritengono che la creazione di un unico servizio di intelligence europeo possa portare a un eccesso di burocrazia? Se sì, come influirebbe sull’efficacia operativa?
“Non c’è dubbio! Abbiamo due chiari esempi di ciò che potrebbe accadere. Da un lato, la stessa Commissione europea (ma anche il Parlamento), un mostro burocratico e tecnocratico caratterizzato da veri e propri sprechi. Dall’altro lato, la CIA: questo servizio ha subito un forte aumento del personale dopo l’11 settembre 2001 ed è diventato un’amministrazione burocratica caratterizzata da grandi rivalità interne e da uno spreco di risorse”.

– Come può la Francia garantire che i suoi interessi strategici e la sua politica di difesa non siano compromessi da un servizio di intelligence centralizzato a livello di Unione Europea?
“Molto semplicemente: mantenendo un servizio di intelligence estero a proprio uso e consumo, responsabile della difesa dei propri interessi nel mondo”.

– Quali esempi storici dimostrano che la Francia è stata riluttante a condividere informazioni sensibili con altri Paesi europei, e come questo influenza la sua posizione attuale?
“Quando sono in gioco i propri interessi, gli Stati raramente condividono informazioni tra loro. Il più delle volte non ce n’è bisogno. Per esempio, quando Greenpeace minacciava i test nucleari francesi nel Pacifico meridionale, non avevamo motivo di condividerli con nessuno.
La situazione è diversa quando le minacce sono comuni (ad esempio durante la Guerra Fredda o di fronte al terrorismo islamico). Ma anche in questo caso, lo scambio di informazioni o di analisi non porta a visioni condivise. Un buon esempio è stata la “rivoluzione libica” del 2011, quando Francia e Regno Unito, con l’appoggio degli Stati Uniti, sono intervenuti con il pretesto che “Gheddafi stava per fare un bagno di sangue”, creando il caos che conosciamo. All’epoca i servizi italiani, che conoscono particolarmente bene la regione dal 1935, erano di parere opposto, e avevano ragione. Scambiarsi informazioni non significa che saranno prese in considerazione. Ancora una volta, è la politica a decidere”
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