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Il premier ungherese Viktor Orban lo aveva annunciato già agli inizi di aprile, quando il collega israeliano Benjamin Netanyahu, ricercato dalla Corte penale internazionale per la mattanza di Gaza, si era recato bellamente in visita a Budapest. E così il Parlamento ungherese ha approvato la sua proposta di avviare il ritiro dell’Ungheria dalla Corte penale internazionale (Cpi), e il ministro degli Esteri Peter Szijjarto ha potuto annunciare che “Con questa decisione, ci rifiutiamo di far parte di un’istituzione politicizzata che ha perso la sua imparzialità e credibilità”.
In realtà ad essere ipocriti non sono i giudici della Corte penale internazionale, bensì i governi dei paesi che la riconoscono. Tanto per dire l’Italia in gennaio ha spedito con un volo di Stato in Libia, invece di arrestare e consegnare alla Cpi il ricercato Najeem Osema al-Masri, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, mentre il presidente Vladimir Putin non è stato arrestato in Mongolia.
Eppure i paesi europei, che fino a ieri si vantavano dello strumento sovranazionale (non riconosciuto da Russia, Usa, Cina e Israele) come di una grande conquista di giustizia e democrazia, hanno strillato ai quattro venti il mandato d’arresto per Vladimir Putin, accusato di aver deportato in Russia i bambini sulla linea dei combattimenti, ma hanno assunto un atteggiamento quantomeno prudente nei confronti del mandato d’arresto per Netanyahu e Yoav Gallant, che a Gaza hanno fatto quasi 60mila morti di cui un terzo bambini.
A dire il vero la Cpi ha comminato da quando è nata (1998) solo 11 condanne e messo in carcere 21 persone, ma sono una sessantina i mandati d’arresto emessi, alcuni dei quali destinati a non essere rispettati. Sono 125 i paesi a riconoscere la Cpi su un totale di 193.