di Giuseppe Gagliano –
L’Ungheria di Viktor Orban si sveglia con un altro schiaffo alla democrazia. Il partito Fidesz, macchina da guerra politica del primo ministro, ha depositato in parlamento un disegno di legge che puzza di autoritarismo lontano un miglio. Titolo? “Sulla trasparenza della vita pubblica”. Un nome innocuo, quasi burocratico, che nasconde una bomba a orologeria contro la società civile. Secondo Politico, questo testo dà all’Ufficio per la protezione della sovranità, un’entità che sembra uscita da un romanzo distopico, il potere di mettere al bando organizzazioni che ricevono finanziamenti esteri, persino sovvenzioni dell’Unione Europea, se considerate una “minaccia” alla sovranità nazionale. E non è tutto: ispezioni intrusive, sequestri di documenti e dispositivi, multe fino a 25 volte l’importo dei fondi ricevuti, da pagare in 15 giorni. Roba che farebbe impallidire anche i regimi più sfacciati.
Ma fermiamoci un attimo. Per capire cosa sta succedendo, dobbiamo fare un passo indietro, perché questa non è una mossa isolata. È l’ennesimo tassello di una strategia che Orbán perfeziona da anni, un copione che mescola populismo, nazionalismo e controllo ossessivo del potere. E, come sempre, il diavolo sta nei dettagli, e nella storia.
Viktor Orban non è un improvvisatore. È un calcolatore, un politico che ha saputo cavalcare le onde della storia ungherese per costruirsi un regno quasi inattaccabile. Negli anni ’80, era un giovane liberale, un ribelle che sfidava il regime comunista. Ma il crollo del Muro di Berlino e l’ingresso dell’Ungheria nell’Europa post-sovietica hanno trasformato quel ragazzo in un pragmatico maestro del potere. Dal 2010, quando Fidesz ha conquistato una supermaggioranza in parlamento, Orbán ha iniziato a smantellare pezzo per pezzo le istituzioni democratiche, senza mai violare apertamente la legge, ma piegandola al suo volere.
Ha chiamato questo sistema “democrazia illiberale”, un ossimoro che nasconde una verità brutale: un governo eletto che usa la democrazia per soffocarla. Media indipendenti? Comprati o chiusi. Magistratura? Riformata per garantire fedeltà al regime. Università? Costrette a piegarsi o a esiliare, come la Central European University di George Soros, cacciata da Budapest nel 2018. E poi le ONG, sempre nel mirino, accusate di essere quinte colonne di potenze straniere. È un copione che ricorda la Russia di Putin, e non è un caso: Orban guarda a est, non solo per pragmatismo economico, ma per affinità ideologica.
Torniamo al presente. Questo disegno di legge non è una novità assoluta. Già nel 2017, l’Ungheria aveva approvato una norma che obbligava le ONG con finanziamenti esteri a registrarsi come “organizzazioni sostenute dall’estero”, un’etichetta che puzzava di stigma. La Corte di giustizia dell’Ue l’ha dichiarata illegale nel 2020, ma Orbán non si è arreso. Ha semplicemente cambiato tattica. Ora, con l’Ufficio per la protezione della sovranità, creato nel 2023 e già criticato come strumento di repressione, il governo alza la posta.
Il testo, presentato a mezzanotte (un orario che sa di mossa furtiva), dà all’Ufficio poteri quasi illimitati. Può indagare su qualsiasi organizzazione, anche quelle che ricevono fondi Ue, e bollarle come minaccia alla sovranità. Ma cosa significa “sovranità” per Orban? È un concetto vago, volutamente elastico, che può includere chiunque critichi il governo: associazioni per i diritti umani, gruppi ambientalisti, media indipendenti. E le sanzioni? Devastanti. Multe astronomiche, sequestri, ispezioni che sembrano più incursioni. È un messaggio chiaro: o vi allineate, o vi distruggiamo.
Qui entra in gioco un paradosso. L’Ungheria è membro dell’Unione Europea, ma Orbán gioca una partita doppia. Da un lato, incassa miliardi di euro in fondi Ue (salvo lamentarsi di Bruxelles a ogni occasione); dall’altro, sfida apertamente i valori europei. Questo disegno di legge è una provocazione diretta: vietare persino le sovvenzioni Ue come “finanziamenti stranieri” è un affronto senza precedenti. Eppure l’Ue tentenna. Negli ultimi anni, ha congelato alcuni fondi destinati a Budapest per violazioni dello stato di diritto, ma Orban è maestro nel trovare scappatoie. E mentre Bruxelles discute, la società civile ungherese soffoca.
I critici, come riportato da Politico e da post su X, vedono in questa legge un’imitazione delle norme russe sugli “agenti stranieri”, usate da Putin per zittire dissenso. Non è un’esagerazione. L’Ungheria sta diventando un laboratorio di autoritarismo dentro l’Ue, un modello che altri leader populisti, da Varsavia a Roma, potrebbero guardare con interesse.
La società civile sotto assedio
Chi sono le vittime di questa stretta? Le ONG, innanzitutto. In Ungheria, gruppi come Amnesty International, Transparency International o le associazioni che aiutano migranti e minoranze sono da anni nel mirino. Ma il colpo è più ampio. Colpire i finanziamenti esteri significa strangolare chiunque osi alzare la voce: dai piccoli collettivi locali ai media indipendenti che sopravvivono grazie a grant internazionali. E l’ironia? L’Ue stessa, con i suoi fondi per la democrazia e i diritti, rischia di essere etichettata come “minaccia” alla sovranità ungherese.
Su X le reazioni sono un misto di sdegno e preoccupazione. Un utente scrive: “Orban mette al bando persino i fondi Ue, mentre la Commissione sta a guardare”. Un altro parla di “fascismo strisciante”. Parole forti, ma non fuori luogo. La società civile ungherese è allo stremo, schiacciata tra un governo che la demonizza e un’Europa che non riesce a proteggerla.
Uno sguardo al futuro: resistenza o resa?
Cosa succederà ora? Difficile dirlo. La storia ci insegna che Orban non bluffa. Ogni sua mossa è calcolata, testata per vedere fino a dove può spingersi. Se il disegno di legge passerà, e con la supermaggioranza di Fidesz è quasi certo, l’Ungheria farà un altro passo verso un regime sempre più chiuso. Ma c’è un barlume di speranza. La società civile ungherese, pur indebolita, non è morta. Negli ultimi anni, proteste e mobilitazioni hanno mostrato che la resistenza esiste, anche se frammentata.
L’Europa, però, deve fare di più. Sanzioni mirate, pressione diplomatica, sospensione dei fondi: le opzioni ci sono, ma serve volontà politica. Altrimenti il messaggio sarà chiaro: puoi essere un autocrate e restare nell’Ue, basta giocare bene le tue carte.
Conclusione: il prezzo della libertà
Viktor Orban non è solo un problema ungherese. È un avvertimento per tutti noi. La sua Ungheria ci mostra cosa succede quando la democrazia viene erosa dall’interno, un pezzo alla volta, con il consenso di un elettorato stanco e disilluso. Questo disegno di legge non è solo un attacco alla società civile: è un attacco all’idea stessa di libertà. E mentre Budapest si prepara a un altro inverno di repressione, una domanda resta sospesa: quanto ancora possiamo permetterci di ignorare?