Usa. «El halcón» Rubio agli Esteri, scenari

di Francesco Giappichini –

«Donald Trump defends size of his penis», ovvero «Donald Trump difende le dimensioni del suo pene». È il titolo di un denso reportage pubblicato il 4 marzo 2016 dalla nota testata statunitense Cnn (Cable news network). Vi si riportava l’attacco al presidente eletto Donald John Trump, da parte del futuro segretario di Stato degli Stati Uniti, Marco Rubio, e la risposta del Tycoon. I due erano impegnati nelle elezioni primarie del Partito repubblicano statunitense del 2016, che avrebbero assegnato la vittoria a Trump, sul senatore Rafael Edward “Ted” Cruz, e sull’altro sfidante Rubio: il futuro «the world’s most important diplomat», come scrive la stampa nordamericana.
Seguono le parole del senatore per la Florida, Rubio, nato nel 1971 a Miami da immigrati cubani, e nell’occasione irritato dall’ex presidente, che ne sottolineava la bassa statura: «Mi chiama sempre “Piccolo Marco”. Ammetto che è più alto di me. Non capisco perché le sue mani siano grandi quanto qualcuno che è alto un metro e mezzo. Sapete cosa dicono degli uomini che hanno le mani piccole? Che non puoi fidarti di loro». Seguì la replica del capo dello stato entrante: «Se l’è presa con le mie mani. Mai nessuno se l’era presa con le mie mani. Non avevo mai sentito nulla di simile. Guardate queste mani. Sono piccole? E se l’è presa con loro… Se sono piccole, anche qualcos’altro deve essere piccolo. Io però vi garantisco che su questo non vi sono problemi. Ve lo garantisco».
Forse hanno ragione quegli osservatori che definiscono la nuova squadra di governo trumpiana come una grottesca combriccola d’impresentabili: «Il suo governo sembra il bar di Guerre stellari», si esclama nei talk show. Rubio però, a differenza di alcuni futuri colleghi, non può essere catalogato tra gli «yes man», i fedelissimi pronti a dire sempre sì. Del resto durante la campagna elettorale del ’16 non si dibatteva solo sulla virilità: se Trump declamava che non avrebbe affidato all’avvocato di origine latina neppure le sue aziende più piccole, l’altro ribatteva dandogli tacitamente del truffatore. Rubio ha, infatti, rappresentato, durante il Gabinetto Biden, una sorta di segretario di stato ombra per l’America latina.
E semmai si può discutere se la nomina significherà una rinnovata rilevanza per la regione, da decenni trascurata da Washington; oppure se il «cortile di casa» continuerà a rivestire un rilievo secondario, nonostante la nomina di Rubio. Che è già stato celebrato dai media ispanici come «el latino con el cargo más importante en la historia del gobierno de EE.UU.». Andiamo però con ordine per analizzare il background del futuro segretario di stato, e i motivi della nomina, e per anticipare gli scenari che si prospettano con questi alla guida del Dipartimento di stato. Rubio è figlio di emigrati che lasciarono Cuba nel 1956, oltre due anni prima dell’ascesa al potere del Líder máximo, Fidel Castro.
E tuttavia, anche su questo aspetto, è fiorita una polemica. Cresciuto nel brodo di coltura dell’universo anticastrista di Miami, quando decise di scendere in politica trovò più conveniente mentire: si presentò come figlio di esuli perseguitati dal comunismo, ed esponente della comunità di esiliati dalla Revolución. Solo in seguito venne alla luce la verità: non solo non vi furono persecuzioni, ma anzi nel 1959 il nonno materno, e poi nel 1961 la madre e il fratello maggiore, fecero temporaneamente ritorno nell’Isola caraibica, per verificare (pur con esito negativo) varie opportunità economiche. «Little Marco» fu così costretto a scusarsi, adducendo di non aver ancora fatto una ricerca sulla storia della sua famiglia.
In ogni caso il suo impegno politico ha sempre avuto come focus Cuba, prima ancora che il resto del Latino America, ed è su questo fronte che ha costruito la propria fama di falco, “halcón” in castigliano, e di anticomunista dalla retorica incendiaria. Ben esemplificata dagli attacchi all’ex presidente Barack Obama, per le sue politiche del disgelo verso L’Avana. In qualità di presidente e vicepresidente dell’United States senate select committee on intelligence (Intelligence committee o Ssci), noto in Italia come Comitato ristretto per l’intelligence, ha affrontato ogni questione di politica estera. E ricoprendo questo incarico, oltreché come membro del Committee on Foreign relations, non solo ha sovente attaccato Cuba, Venezuela, Nicaragua, Russia, Iran e Cina; ma ha anche preso di mira i governi di sinistra latinoamericani, e i loro leader.
Dal Brasile alla Colombia, dal Cile al Messico dell’ex presidente Andrés Manuel López Obrador (Amlo) «che ha consegnato parti del suo Paese ai cartelli della droga ed è un sostenitore della tirannia a Cuba, di un dittatore omicida in Nicaragua e di un trafficante di droga in Venezuela». Né ha risparmiato l’Argentina peronista, basti pensare agli strali lanciati contro l’ex presidente Cristina Fernández de Kirchner. Al contrario ha sovente manifestato appoggio a Israele e ai Paesi latinoamericani governati dalle forze moderate e conservatrici, in primis l’Argentina del presidente ultraliberale Javier Milei. Gli esperti sono però divisi sul perché della nomina. A giudizio di alcuni, il magnate ha scelto il senatore di Miami per la lunga storia di opposizione alle autocrazie latinoamericane, per la profonda conoscenza dell’area, e per le stabili relazioni con i leader locali conservatori.
Tutto ciò al fine di ricondurre il Subcontinente al centro delle strategie di Washington. Per altri il tycoon apprezzerebbe soprattutto la retorica anticomunista e il suo impegno per la democrazia liberale. Restano da osservare gli scenari che possono derivare dalla sua gestione, dando per scontato che certe questioni globali saranno gestite direttamente dalla Casa Bianca. È il caso del conflitto russo-ucraino. Rubio ha dapprima sostenuto con entusiasmo Kiev; epperò in seguito, dopo che Trump ha promesso di porre fine al conflitto con una pace negoziata, ha parlato di una soluzione di buon senso: purtroppo «la realtà è che il modo in cui la guerra in Ucraina finirà è una soluzione negoziata. Speriamo che quando arriverà quel momento, ci sarà più influenza da parte ucraina che da parte russa. Questo è davvero l’obiettivo qui, nella mia mente». E ancora: ciò «che stiamo finanziando qui, è una guerra di stagnazione. È necessario porre fine a questo, perché altrimenti quel Paese tornerà indietro di cento anni». Più assertiva la posizione anti-iraniana: sì a una soluzione negoziata e pragmatica con Teheran, ma solo nel caso in cui, nei fatti, il regime degli Ayatollah cessi di essere tale. Ancor più aggressive le (ricorrenti) affermazioni anti cinesi, che puntano il dito contro le stesse fondamenta dell’economia del Paese asiatico. Così nell’agosto ’20 Pechino lo sottopone a sanzioni, in risposta ad analoghe misure disposte da Washington contro gli amministratori di Hong Kong: i cinesi lo avrebbero colpito per le dure critiche alla nota Legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong del giugno ’20.