Usa. Harris: filocinese o anticinese?

di Francesco Giappichini

Secondo i sondaggi del 3 settembre nei sette Swing state (Stati in bilico), la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris sarebbe ormai in netto vantaggio in quattro di essi. L’interesse degli osservatori si è così spostato sugli scenari che si aprirebbero con la vittoria del ticket del Partito democratico. E un posto di primo piano lo occupano i pronostici sulle relazioni con la Cina. Sono così esaminati ai raggi X gli atti politici e le dichiarazioni che hanno a che vedere col Dragone: non solo quelli di Harris, ma anche del vice Tim Walz, governatore dello Stato del Minnesota. Si cerca poi d’interpretare la posizione, verso di loro, del Partito comunista cinese (Pcc).
Sono apparsi anche articoli di colore, peraltro molto leggeri, nel caso di Harris. Si narra che quando ancora la legge lo consentiva, assunse un nome cinese ufficiale in mandarino, senza ricorrere alla molto più comune trascrizione fonetica: He Jinli, in caratteri tradizionali 賀錦麗 – può tradursi (liberamente) come «Bellezza intricata e di successo». La scelta di Harris risale al 2003, quando si candidava come procuratore distrettuale di San Francisco; ma la legge richiede tuttora che, nelle aree con un gran numero di sinofoni, i nomi dei candidati siano tradotti anche in cinese, sulla scheda elettorale. E poi sono fioriti tanti pezzi di costume, a descrivere l’attrazione di Walz verso la Cina.
Questi rifiuta la qualifica di esperto, ma è un appassionato di quella cultura, e un attento osservatore di quella società. Vi si recò per la prima volta nel 1989, per insegnare nella città Foshan, fu soprannominato “Campi della Cina”, e poi organizzò vari viaggi di studio nel Paese. I media raccontano che entro il 2016 aveva già visitato la Cina una trentina volte, compreso il viaggio di nozze; e che soprattutto la coppia avrebbe deciso di sposarsi il 4 giugno 1994, per commemorare la protesta di Piazza Tienanmen di cinque anni prima. Andiamo però con ordine. In sintesi gli analisti escludono radicali cambi di rotta su questo asse, rispetto all’Amministrazione Biden.
Si tende però a credere, come ben sintetizzato da Stephen Samuel Roach, ex presidente di Morgan Stanley Asia, che il ticket Harris-Walz può fornire «un importante contrappeso all’attuale veleno della sinofobia americana». Un tesi minoritaria pronostica invece che il trumpismo al potere ridurrebbe le pressioni sulla Russia e, come conseguenza, sulla Cina, che viene adesso accusata di sostenere l’industria bellica di Mosca. Osserviamo quindi le mosse della Harris nei confronti dei rivali strategici. Sotto il profilo economico, Harris pare scettica sia rispetto alla guerra commerciale tout court, così come declamata dall’ex presidente Donald Trump, sia verso il cosiddetto decoupling.
E a quel disaccoppiamento fatto proprio dalla stessa Casa Bianca (spesso negandolo), preferirebbe la strategia soft del derisking, cara a Bruxelles: la riduzione dei rischi, che si ottiene cercando di evitare la dipendenza da quel mercato. Circa i capitoli della democrazia, dei diritti umani, della politica estera tout court, emerge una linea all’insegna dell’inflessibilità, unita alla scarsa specializzazione sui temi geopolitici. Sarà così essenziale valutare la futura squadra di collaboratori, capire di chi si fida veramente. Scontati gli interrogativi: il segretario di Stato Antony Blinken sarà riconfermato? E il vicesegretario di Stato Kurt Michael Campbell, considerato dai cinesi un falco?
Ci si affiderà ancora a Jake Sullivan, qual consigliere del Presidente per gli affari di sicurezza nazionale? Passiamo alle questioni concrete, iniziando da Hong Kong. Durante la presidenza Trump appoggia la legge bipartisan, presentata dal senatore repubblicano della Florida, Marco Rubio: l’Hong Kong human rights and democracy act of 2019 punta a promuovere i diritti umani e sanzionare i funzionari colpevoli di «minare le libertà fondamentali e l’autonomia». Analoga posizione sugli uiguri: ha sostenuto lo Uyghur human rights policy act of 2020, che sanziona i «responsabili di violazioni dei diritti umani» nello Xinjiang. Un approccio all’insegna della fermezza esibito anche su Taiwan: nel settembre ’22 afferma che «continueremo a sostenere l’autodifesa di Taiwan, in linea con la nostra politica di lunga data».
E le analogie si estendono all’assertività cinese nel Mar Cinese meridionale. Si richiama il viaggio del novembre ’22 nelle Filippine, in cui si spinse sino all’isola di Palawan, ai margini della zona contesa, e dichiarò che gli Stati Uniti sosterranno l’alleato di fronte alle coercizioni della Guardia costiera cinese. Si ricordano i fugaci incontri sia col leader cinese Xi Jinping, sia con l’attuale presidente di Taiwan, Lai Ching-te, prima dell’insediamento. E poi sono valutate anche le prese di posizione di Walz verso il Pcc, ma non è certo se, sulla scelta da parte di Harris, abbia pesato anche il suo curriculum cinese. Se per Rubio la candidatura risponde a un disegno preordinato dagli asiatici e il presidente del Comitato di vigilanza della Camera (Committee on oversight and accountability), James Comer, ha avviato un’indagine per i legami con Pechino, la rivista “Foreign policy” lo definisce «critico misurato» del Pcc.
Restano tuttavia agli atti la preoccupazione per i diritti umani, specie a Hong Kong e in Tibet, e la lunga storia di critiche alla leadership comunista; nonché gli incontri con Tenzin Gyatso, il Dalai Lama, con Lobsang Sangay, l’allora leader del governo tibetano in esilio, con l’attivista di Hong Kong, Joshua Wong. Così in Congresso da un lato si è opposto alla guerra commerciale, allo «scollamento» economico, al divieto di Tik Tok; dall’altro lato ha raccolto sostegno per gli attivisti cinesi in carcere, e integrato la Commissione esecutiva del Congresso sulla Cina, che monitora i diritti umani. E la posizione della Cina, innanzi agli eventi? La leadership è convinta che né Harris né Trump elimineranno i dazi o le misure di «contenimento tecnologico»; e tuttavia si preferisce il ticket democratico, come male minore. Si teme, detto brutalmente, che anziché gestire la concorrenza commerciale, i repubblicani prefigurino una sorta di guerra fredda; che, va da sé, avrebbe come obiettivo ideale un regime change, percepito come minaccia esistenziale. La prima reazione dopo la nomination di Harris è stata cauta; sia per ribadire il principio (molto caro a Pechino) della «non ingerenza negli affari interni», sia perché si è convinti che a Washington il vento della politica può cambiare rapidamente. La locale dirigenza è stata, infatti, colta alla sprovvista, nel ’16, dalla rimonta di Trump sull’ex segretaria di stato Hillary Clinton. Dopo la nomina di Walz, vi è poi stato un cambiamento di toni, da parte dei media vicini al Pcc. Se all’inizio si tentava di leggere la vicenda quale sintomo della decadenza occidentale (e della disorganizzazione dei democratici), la successiva nomina del governatore ha reso inefficace questa narrazione, in breve esauritasi.