di Giuseppe Gagliano –
Il volto dell’America che prometteva “unità” e “democrazia” esce ora da dietro le quinte con contorni ben più cupi. Le recenti parole del presidente brasiliano Lula, rilasciate in un’intervista a Le Monde, squarciano il velo dell’ipocrisia diplomatica e gettano luce su un elemento tanto scomodo quanto rimosso: secondo Lula, Joe Biden era deciso a “distruggere la Russia”. Un’accusa diretta e pesante, che smonta la narrazione di una Casa Bianca impegnata solo a “difendere l’Ucraina” e che, al contrario, suggerisce l’esistenza di un obiettivo geopolitico più profondo: l’annientamento strategico della potenza russa, più che la salvaguardia di Kiev.
Parole che, se pronunciate da un leader minore, sarebbero archiviate come boutade. Ma Lula non è un personaggio secondario: è a capo del Brasile, uno dei pesi massimi del Sud globale, interlocutore privilegiato della Cina, mediatore del BRICS, sostenitore di un ordine multipolare. E il suo sguardo – critico ma non negazionista – ribalta le responsabilità unilaterali: “i Paesi occidentali hanno contribuito alla guerra”, dice Lula, accusando Washington e l’Europa di aver soffiato sul fuoco, finanziato il riarmo e azzerato la diplomazia. La pace, secondo lui, non è nemmeno cercata: “Se si parla solo di guerra, la pace non verrà mai”.
Non è solo la politica estera a preoccupare. Nelle retrovie del potere americano, affiora con sempre maggiore insistenza il tema del declino psico-fisico di Joe Biden. La recente uscita del libro Original Sin: President Biden’s Decline, Its Cover-Up, and His Disastrous Choice to Run Again, firmato da Jake Tapper (CNN) e Alex Thompson (Axios), getta benzina su una questione tenuta sotto traccia per anni dai media mainstream: lo stato confusionale, la perdita di memoria, i blackout cognitivi del presidente. Testimoni parlano di un Biden incapace di seguire una conversazione, di ricordare date cruciali, persino volti noti. Non è più solo un sospetto dei “complottisti” di destra: è un dato su cui ora anche la stampa di sistema è costretta a riflettere.
Il ritratto che emerge è inquietante. Biden avrebbe guidato gli Stati Uniti come presidente formale di un “consiglio d’amministrazione” composto da 4-5 figure chiave della sua cerchia. Un potere decentrato, opaco, in cui il leader è figura simbolica, non operativa. Un uomo fragile, ora colpito anche da una forma aggressiva di cancro alla prostata con metastasi ossee, che ha portato avanti, nel silenzio mediatico più complice, una delle escalation militari più pericolose dai tempi della Guerra Fredda.
Ecco allora l’interrogativo più scomodo: come è stato possibile che per anni media, apparati, giornalisti, opinionisti abbiano taciuto tutto questo? Che il declino evidente venisse minimizzato, se non deriso, da chi avrebbe dovuto vigilare? Che chi sollevava dubbi fosse accusato di fare “propaganda russa” o di diffondere fake news?
Il caso Biden diventa così il simbolo di un cortocircuito sistemico: il potere reale, in Occidente, si ammanta di trasparenza e legalità, ma si esercita sempre più come gestione emergenziale di equilibri interni ed esterni, in cui la verità è subordinata alla convenienza politica. E se oggi l’America torna alla guida di Donald Trump, che eredita una situazione geopolitica esplosiva e un Paese segnato, è anche a causa del fallimento di chi ha preferito raccontare favole piuttosto che descrivere il potere per ciò che è.