di C. Alessandro Mauceri –
Da alcune settimane le dichiarazioni di politica estera del presidente americano Donald Trump stanno monopolizzando l’attenzione. Ma all’interno dei confini nazionali i problemi sono sempre più gravi. Questioni ataviche che restano irrisolte. Come il debito pubblico: ad agosto ha fatto segnare un nuovo record storico: oltre 37 trilioni di dollari, pari al 130% del PIL. E pensare che un paio di decenni fa, nel 2008, il debito pubblico degli Stati Uniti d’America era intorno ai 10 trilioni di dollari. O come lo shutdown: dall’1 ottobre gli uffici federali non indispensabili sono fermi e i lavoratori sono a casa. In passato i presidenti che hanno dovuto affrontare questa situazione sono riusciti a risolvere il problema in pochi giorni. Ora Trump, nonostante la netta maggioranza al Congresso sembra non essere capace di risolvere il problema (o di non volerlo fare).
Tra le attività federali che hanno continuato a lavorare nonostante lo shutdown c’è il Pentagono. Ma anche qui i problemi non mancano.
Ieri scadeva il termine per accettare le nuove regole imposto dal segretario alla Guerra, Pete Hegseth, che qualche settimana aveva diffuso una nota di 21 pagine (le precedenti regole si limitavano ad una paginetta) nella quale, oltre a stabilire “nuove regole di cronaca”, imponeva ai giornalisti accreditati al Pentagono (una novantina) limitazioni di movimento all’interno dell’edificio senza una scorta governativa. Ma soprattutto vietava ai media accreditati di utilizzare notizie che non fossero precedentemente autorizzate in modo esplicito dal Pentagono. Una sorta di bavaglio o di censura mediatica finora visto solo in alcuni paesi gestiti da governi dispotici. “La stampa non gestisce il Pentagono, lo fa il popolo. La stampa non è più autorizzata a vagare per i corridoi di una struttura sicura. Indossa un distintivo e segui le regole, o vai a casa”, ha scritto Pete Hegseth qualche giorno fa.
Unanime la reazione degli addetti stampa accreditati al Pentagono e dei gruppi per la libertà di stampa che hanno condannato duramente questa decisione. Anche la Pentagon Press Association ha espresso giudizi profondamente negativi su questa misura. “È al 100% una tattica intimidatoria. È al 100% un tentativo di uccidere la trasparenza e incanalare tutte le informazioni pubbliche attraverso il governo, il che va contro ogni principio costituzionale di libertà di parola che si possa immaginare”, ha detto Kevin Baron, ex vicepresidente della Pentagon Press Association e reporter dal Pentagono per 15 anni. I giornalisti del Washington Post, del New York Times, ma anche dell’Atlantic, della Cnn e dell Guardian e della rivista specializzata Breaking Defense, hanno annunciato che non accetteranno le regole imposte sulla stampa dal dipartimento della Difesa.
“Le restrizioni proposte indeboliscono le tutele del Primo emendamento, imponendo inutili vincoli alla raccolta e alla pubblicazione di informazioni”, ha dichiarato Matt Murray. Per Richard Stevenson, caporedattore dell’ufficio di Washington del New York Times, le norme “limitano il modo in cui i giornalisti possono riferire sulle forze armate USA finanziate annualmente con quasi mille miliardi di dollari di tasse dei contribuenti”. Per il Los Angeles Times si tratta di un’iniziativa “senza precedenti”. “Senza precedenti”: le agenzie di stampa respingono la politica della stampa del Pentagono. “Il pubblico ha il diritto di sapere come operano il governo e le forze armate”, ha ribadito il direttore dell’Atlantic, Jeffrey Goldberg.
Non è la prima volta che Hegseth finisce in prima pagina per le sue decisioni “originali”. Poco tempo fa i media statunitensi avevano parlato di quella che alcuni hanno chiamato la “Pete and Bobby Challenge”: l’obbligo per i militari e i funzionari del Pentagono di sottoporsi a verifiche a sorpresa con interrogatori con la macchina della verità.
Ora è andato oltre. E almeno una trentina di giornalisti hanno già restituito il pass.












