di Giuseppe Gagliano –
Mentre il mondo osserva con crescente inquietudine il deteriorarsi dei rapporti tra Washington e Pechino, l’amministrazione Trump compie un altro passo clamoroso nella sua strategia di contenimento economico della Cina: dazi fino al 245% su alcune categorie di prodotti importati. Un dato che supera le aspettative e solleva interrogativi non solo commerciali, ma soprattutto geopolitici.
Secondo quanto emerso da un documento della Casa Bianca e confermato da un funzionario statunitense il 16 aprile, la nuova soglia doganale non è un mero aggiustamento tecnico, ma il risultato di un mosaico di misure punitive che comprendono la Sezione 301 (contro pratiche sleali), il dazio sul fentanyl e misure reciprocamente ritorsive. A farne le spese, fra gli altri, i veicoli elettrici e le siringhe, settori nei quali Pechino ha investito pesantemente per conquistare leadership globale.
Dietro i tecnicismi si cela una strategia ben più ampia: fare della leva doganale lo strumento principe di una “re-shoring economy”, con l’obiettivo dichiarato di riportare negli Stati Uniti la produzione di beni strategici come semiconduttori, farmaci ed elettronica. Il segretario al Commercio Howard Lutnick è stato chiaro: “Dobbiamo produrre tutto in America”.
Trump cerca così di saldare insieme sicurezza economica e sicurezza nazionale, conferendo alla guerra dei dazi una dimensione strategica. Il rilancio industriale interno, infatti, è anche un messaggio a quella parte dell’elettorato americano che si sente esclusa dalla globalizzazione.
Un primo segnale di ambiguità però è emerso pochi giorni dopo. Inizialmente, un’esenzione sembrava salvare dispositivi elettronici di largo consumo come gli iPhone dai nuovi dazi. Apple e i suoi investitori avevano già tirato un sospiro di sollievo. Ma la tregua è durata poco: Trump ha poi chiarito che tali prodotti saranno riclassificati sotto nuove voci tariffarie legate ai semiconduttori, proseguendo la stretta.
La Cina viene accusata da Washington anche di non contrastare il traffico di fentanyl, droga sintetica che sta devastando ampie fasce della società americana. Un dazio del 20% è stato giustificato in nome della lotta al narcotraffico, rivelando ancora una volta la permeabilità tra economia, sicurezza e diplomazia coercitiva.
E mentre Pechino chiede il ritiro dei dazi e un ritorno alla logica del rispetto reciproco, Trump rilancia: “La palla è nel campo della Cina”. Una dichiarazione che, letta in controluce, rivela un tentativo di costruire un negoziato asimmetrico, nel quale è Pechino a dover cedere terreno.
In parallelo il presidente americano ha annunciato l’arrivo di una delegazione giapponese alla Casa Bianca. Obiettivo: discutere tariffe, cooperazione militare e “equità commerciale”. Anche qui, Trump usa la leva economica come strumento negoziale multilivello, allineando partner strategici (come Tokyo) al nuovo protezionismo statunitense.
Più che una guerra commerciale nel senso stretto, quella tra Stati Uniti e Cina si configura oggi come una guerra di sistemi. Da un lato, l’America che vuole ricostruire una sovranità produttiva nazionale. Dall’altro, la Cina che rivendica il proprio diritto ad essere potenza manifatturiera globale. In mezzo, settori strategici come la tecnologia, la farmaceutica e l’energia.
Le tariffe fino al 245% non sono semplici cifre: sono messaggi politici codificati, strumenti tattici in una lunga guerra fredda economica, dove a essere in gioco è l’ordine globale del XXI secolo.